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A piedi nudi sui Jingle Truck
Reportage - Cinquecento chilometri lungo il Pakistan a bordo di un camion colorato
Gisela Etter, testo e foto
Li chiamano Jingle Truck, per via del tintinnio dei ciondoli appesi ai paraurti. Le decorazioni sono ovunque: piastre metalliche, adesivi colorati, specchi o borchie, frange, cerchioni pennellati di un acceso arancio, davanzali multicolore, paraurti ricoperti di campanellini e catenelle intrecciate, in un’alternanza di motivi floreali, calligrafie, uccelli e pesci.
Ho attraversato il Pakistan in autostop per ascoltare storie nuove e scoprire che odore ha l’aria di montagna a queste latitudini. Ho preferito restare al di fuori dei consueti circuiti turistici per conoscere persone e luoghi profondamente normali, quotidiani, seppure di una quotidianità tanto diversa dalla mia. Mi accorgo subito però che sulla strada di normale c’è ben poco. L’esuberante e abbagliante estetica dei camion pakistani cattura lo sguardo. Questi bestioni della strada hanno un’insolita grazia, sono delle vere e proprie opere d’arte senza eguali in nessun altro Paese al mondo.
Sono tutti uguali e al tempo stesso diversi. Ogni camion è una variazione sul tema, le decorazioni scelte raccontano il luogo d’origine del camionista e dunque sono anche un rimedio contro la nostalgia, quando i guidatori restano lontani da casa per lunghi periodi.
Affascinata da questi baracconi colorati, declino cortesemente le offerte delle automobili che fanno a gara nel fermarsi, quando (insieme al mio compagno) comincio questa esperienza alla periferia della capitale, Islamabad. Accetto invece un passaggio da un camionista, Shahid. Tre ripidi e lunghi gradini più su vengo invitata a togliermi le scarpe e a mettermi comoda, sistemando sulla cuccetta gli zaini pesanti. Le pareti della cabina sono sovraccariche di souvenir e fotografie, come in una stanza di casa. Sono subito trattata con la gentilezza che si riserva agli ospiti e questo mi permette di accorciare rapidamente le distanze culturali. Shahid abbozza un timido sorriso e nel suo inglese traballante mi pone le prime domande di circostanza. Quando scopre che sono in viaggio da mesi sulle strade dell’Oriente, proprio come lui, inizia a raccontarsi con entusiasmo. Ha due figli pressappoco della mia età; è molto orgoglioso di essere riuscito a farli studiare e sogna che un giorno possano emigrare all’estero per trovare un buon lavoro e una casa tutta loro.
Shahid vive a Karachi, nel sud del Pakistan, ed è appena partito per un lungo viaggio che lo vedrà attraversare le aree a nord del Paese diretto in Afghanistan e in Turkmenistan. Lo accompagna il fratello e collega Ahmid, alla guida dell’altro camion. Siamo diretti a Gilgit, snodo importante lungo l’antica Via della seta, ai piedi di imponenti catene montuose. In questa casa itinerante percorriamo più di cinquecento chilometri, con tanto di notte a bordo.
Dalla grande vetrata frontale m’immergo completamente nel paesaggio. L’autocarro è lento di suo e non aiutano certo curve a gomito e dislivelli sempre maggiori, lungo la celeberrima Karakorum Highway, che attraverso il Passo Khunjerab (4693 mlm) dal 1982 collega Pakistan e Cina. È una delle tratte stradali più alte al mondo; attraversiamo terreni rocciosi costeggiati da imponenti fiumi, alimentati dallo scioglimento dei ghiacciai circostanti. Nonostante la freddezza del luogo, sono avvolta da un’atmosfera confortevole e da un calore familiare, con in sottofondo musica tradizionale e la voce di Shahid, sempre attento a controllare le mosse del fratello nello specchietto retrovisore. Numerose videochiamate con i figli e la moglie mi consentono di dare un volto ai protagonisti di tutti i suoi racconti.
Verso sera ci fermiamo in un largo spiazzo sul ciglio della strada per preparare la cena. Da una banale porticella sul lato destro del veicolo spunta fuori a sorpresa una cucina da campo fornita di tutto. Le montagne più alte del mondo fanno da cornice a questa cena improvvisata con seggiole da campeggio, immancabile tè (çay) con latte e sale, seguito da riso con dahl, le tipiche lenticchie rosse. Ancora qualche chilometro e arriviamo in un’area industriale ai margini di Gilgit, dove sostiamo in un deposito per camionisti. Se ci fossi capitata per caso, questa zona periferica mi sarebbe sembrata povera e forse pericolosa, ma per chi come Shahid e Ahmid spende molto tempo alla guida in solitaria si trasforma in uno spazio di condivisione e convivialità. Premurosamente Shahid ci cede la sua branda per la notte e si corica insieme al fratello nel secondo camion.
Al risveglio ci salutiamo e mi dirigo verso la valle dello Hunza, rientrando nel mondo dei turisti e dei backpacker. Questa valle infatti è famosa per lo spettacolare paesaggio punteggiato da altissime montagne (Rakaposhi, Ultar Sar e tante altre, tutte ben sopra ai settemila metri); inoltre qui lo scrittore americano James Hilton collocò l’utopica e perfetta Shangri-La, immaginata nel suo romanzo Orizzonte perduto (1933). Nonostante tanta bellezza mi attenda, mi separo con dispiacere dalla vita quotidiana dei camionisti pakistani, loro, sì, grandi viaggiatori. Shahid mi saluta con spirito paterno, raccomandandomi di stare in guardia dai pericoli della strada. Mi fa uno strano effetto perché sino a ora nel mio immaginario proprio i camionisti avevano una reputazione controversa. Ma mettere in discussione i propri pregiudizi è uno dei doni più preziosi del viaggio.
Dentro a questi veicoli imponenti, dietro a un aspetto talvolta ruvido, ho incontrato semplicemente cordiali e instancabili lavoratori in viaggio per settimane, intenti ad alleviare il peso della distanza dai propri affetti mantenendo vividi i ricordi attraverso storie e immagini, felici di poter condividere un pezzo di strada in compagnia di uno sconosciuto a cui raccontarsi.