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Bibliografia

Antonello Capurso, La piuma del ghetto. Leone Èfrati, dalla gloria al campo di sterminio, Gallucci Bros, 2023, 336 pp.


Lelletto Èfrati: un pugile contro il peso della storia

Premio Bancarella Sport 2024: dai ghetti romani alle vittorie sul ring: la vita di un campione ebreo sotto il fascismo
/ 20/01/2025
Giovanni Medolago

È il 14 luglio 1555: nemmeno due mesi dopo la sua elezione al soglio pontificio, Papa Paolo IV (Gian Pietro Carafa) pubblica Cum nimis absurdum. È la prima delle bolle papali che lo storico Attilio Milano ha qualificato come infami insieme alla Hebraeorum gens (1569) e alla Caeca et obdurata (1593): «Paolo IV diede espressione a tutto il suo livore contro gli ebrei in una bolla destinata a farli precipitare in uno dei più profondi abissi di degradazione che mente umana possa immaginare». (Attilio Milano, Storia degli Ebrei in Italia, Einaudi).

L’incipit della bolla non lascia dubbi sull’antisemitismo di Carafa, del resto fresco reduce da dieci anni passati al vertice dell’Inquisizione romana quale Prefetto della Congregazione del Sant’Uffizio: «Poiché è oltremodo assurdo e disdicevole che gli ebrei, che solo la propria colpa sottomise alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di esser protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo ai cristiani, mostrare tale ingratitudine verso di questi, da rendere loro offesa in cambio della misericordia ricevuta, e da pretendere di dominarli invece di servirli come debbano». Per Carafa era assurdo che Roma si impegnasse solo contro la Riforma di Lutero: bisognava dare un’occhiata anche alle comunità ebraiche. In particolare, la bolla disponeva che i Giudei venissero obbligati ad abitare in luogo separato dalle case dei cristiani. Ciò significava l’istituzione ufficiale dei ghetti, che Carafa definisce più cristianamente «i serragli». Ogni città poteva avere una sola sinagoga, le altre andavano distrutte. Gli ebrei dovevano portare un segno distintivo di colore turchese (glauci coloris): un cappello per gli uomini e un fazzoletto per le donne. Ogni riferimento alla Stella di Davide imposta dal baffetto austriaco nel Novecento ai Giudei è storicamente legittimo. Tra altri comma altrettanto vessatori, la bolla sanciva per gli appartenenti alla tribù di Giuda il divieto d’esercitare alcun commercio al di fuori di quello degli stracci e dei vestiti usati.

A distanza di secoli, quest’ultima disposizione segnò la vita di Leone Èfrati, ebreo romano – poi deceduto nel campo di concentramento di Auschwitz – che già a otto anni era in strada per offrire ai passanti, tra i vari mercati della città, lacci per calzature, volgarmente detti stringhe. «Ahò, 8 lacci una lira!», strillava. È uno degli episodi storicamente provati e ricordati nella recente biografia – qua e là romanzata – che Antonello Capurso dedica a Èfrati (La piuma del ghetto, ed. Gallucci), valsa al suo autore il Premio Bancarella Sport 2024.

Costretto a imparare a difendersi dagli assalti e dalle botte, l’adolescente Leone decide di iscriversi alla palestra Audace, fucina di pugili che si son poi fatti strada anche in ambito internazionale. Il gestore/manager/talent scout dell’Audace, Cesare de Santis, coglie immediatamente in quel giovincello un invidiabile talento e in pochi mesi lo porta a disputarsi il titolo italiano dei pesi piuma.

Si accorgono di lui anche i giornalisti sportivi e il quotidiano fascista «Il Littoriale» nel 1937 scrive entusiasta: «Èfrati è uno dei migliori elementi – se non proprio il migliore in senso assoluto – che abbia prodotto il pugilato italiano in questi ultimi tempi. Stilista perfetto, sobrio quanto elegante nei movimenti, egli ha veramente il bernoccolo (sic!, n.d.r.) del pugilato».

Orgoglioso della sua ascendenza – sebbene in sinagoga non lo si veda sovente – Leone detto Lelletto è solito combattere con la Stella di Davide cucita sui calzoncini. Sarà proprio De Santis a suonare il primo campanello d’allarme per quel suo talento, promettentissimo ma ebreo: «Dovresti toglierti quel simbolo. Sai, non è gradito a quei signori» gli consiglia indicando due ceffi col bavero alzato e gli occhiali scuri, sebbene stesse per iniziare un incontro in notturna. Lelletto non capisce ma si adegua: lo confortano le vittorie e la prima tournée a Parigi. Le cose precipitano nell’autunno 1938 con l’avvento delle leggi razziali: tutti gli atleti ebrei sono esclusi da qualsiasi competizione sull’intero territorio nazionale.

Memore delle sue esperienze di regia teatrale (per lui ha recitato Giorgio Albertazzi), Capurso rievoca quel giorno, creando una scena tragicomica nel salone del barbiere del ghetto, dove irrompe Mossiù Maccherone – guarda caso commerciante di tessuti – sbattendo sul tavolo un giornale dove campeggia il titolo: Il fascismo e i problemi della razza. Gli ebrei non sono italiani, anzi: sono un pericolo per l’Italia, legge Mossiù, mentre il coro di analfabeti che gli sta attorno ricorda a viva voce che «Sul Piave s’è sparso anche sangue nostro». È solo un equivoco, profetizza uno con la tessera del fascio: il Duce chiarirà tutto. Leone, nel frattempo reso padre dall’amata Letizia, torna a casa sconvolto e promette alla moglie: «Vado a Piazza Venezia da Mussolini. Quanno s’affaccia ar balcone tiro su Romoletto e gli dico: ahò, lo vedi sto ragazzino che manco cammina? E mi spieghi tu che sai tutto per chi sarebbe pericoloso? Se Romoletto mio è pericoloso per il fascismo, pensa te come stiamo messi male!».

Grazie al suo talento e alla mediazione di De Santis, Èfrati strappa poi un contratto per andare a combattere negli USA. «The Italian-Jewish refugee», come lo definiscono i giornali locali, batte a Chicago il quotato Ray Balmer, sia pure per una misera borsa di appena 75 dollari. Allo scontro assiste anche Barney Ross, che addirittura sale sul palco per abbracciare la piuma del ghetto. Vera quanto dimenticata leggenda della boxe, Ross (all’anagrafe Dov-Ber Rosofsky) è stato tra i pochi artisti del ring capaci di detenere tre cinture mondiali contemporaneamente. Una carriera fulminante, facilitata da un ambiguo personaggio in odor di mafia, anni dopo divenuto celebre per «meriti» extra-sportivi, Jacob Rubinstein, come lui ebreo di Chicago, divenuto Jack Ruby per tentare di nascondere le origini ebraiche. Proprio quel Jack Ruby assassino di Lee Oswald, a sua volta presunto killer del presidente Kennedy a Dallas.

Basta questo per ipotizzare che La piuma del ghetto, con i suoi sorprendenti agganci storici e grazie al suo variopinto affresco del ghetto di Roma – animato da personaggi felliniani quali Zì Ballone, biscottaro, o Rosa la bruscolinara, maestra nell’arrostire semi di zucca e mandorle – susciterà l’attenzione non solo degli appassionati di pugilato.