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Kolmanskop, l’oasi fantasma del deserto del Namib

Dalle spiagge dell’Atlantico alle miniere di diamanti della Sperrgebiet, la storia affascinante e decadente di una città fantasma, dove le tempeste di sabbia hanno inghiottito i sogni di ricchezza e prosperità
/ 30/12/2024
Enrico Martino, testo e foto

«Se non piove c’è la tempesta di sabbia. D’altronde si sa, l’estate è così» sentenzia con granitica certezza in un inglese gutturale l’anziana signorina appollaiata dietro il venerando bancone in legno della Luderitz Safaris and Tours. Sul retro, una radio trasmette musica tedesca degli anni Cinquanta mentre un vento furioso spara vagonate di sabbia contro le facciate jugendstil color pastello di Bismarckstraße. Una «vacanza da sogno sulle spiagge dell’Atlantico», promettono suadenti brochures dell’ufficio turistico, e magari è vero, ma a patto di sopravvivere a quanto di più vicino all’Inferno si possa immaginare, il deserto del Namib.

Areias do Inferno, «Sabbie dell’Inferno», le aveva infatti già ribattezzate il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz nel 1487 quando finalmente riuscì a uscire da quella che aveva chiamato Angra das Voltas, la Baia delle Giravolte. Non gli sarebbe mai passato per la testa che in futuro qualche folle fosse disposto a vivere in un posto simile, ma si sbagliava perché nel 1883 un mercante di Brema, Adolf Lüderitz, comprò questa striscia di costa (dandole il proprio cognome) per cento sterline e sessanta fucili, attirato dai ricchi banchi di pesce richiamati dal plancton della fredda corrente di Benguela e da isolotti coperti di prezioso guano lasciato da infinite generazioni di uccelli marini.

Anche Joseph Fredericks, il capo nama che glielo aveva venduto e che in realtà si chiamava Khorebeb-Naixab, probabilmente pensò di aver fatto l’affare del secolo rifilando quell’inutile caos di vento e sabbia a un ingenuo straniero. Un errore madornale perché come si diceva un tempo «a Dio e ai prussiani nulla è impossibile», come dimostrano le tappezzerie dai tenui colori pastello ancora nascoste nelle viscere di un’architettura guglielmina che il deserto si sta ingoiando con spietata lentezza, pietra dopo pietra, salotto dopo salotto.

Dannazione e mistero

Un clima di dannazione e mistero aleggia ancora su Kolmanskop, perché se è vero che il deserto è un grande equalizzatore, questa inquietante ghost town ne è l’esempio perfetto, con i suoi rispettabili fantasmi di ingegneri, architetti, contabili e impiegati che forse non se ne sono mai andati da questa microscopica capitale di un impero di sabbie e diamanti.

Tutto iniziò un po’ in sordina nel maggio del 1908 quando Zacharias Lewala, un operaio che lavorava alla ferrovia, trovò una strana pietra luccicante tra queste dune. Il suo sovraintendente, il Bahnmeister August Stauch, capì molto in fretta di che cosa si trattasse e corse a registrare come sua proprietà tutti i lotti di deserto acquistabili. All’inizio lo presero per un pazzo sognatore perché nessuno poteva immaginare che le sabbie del deserto nascondessero diamanti, bastarono però poche settimane, e la conferma di un geologo dell’amministrazione coloniale, per dare inizio a una delle più folli corse alla ricchezza della storia. Uffici e negozi del vicino porto di Lüderitz chiusero nel corso di una notte e l’intera popolazione maschile corse verso il deserto, seguita da un’orda di cercatori che arrivavano con ogni mezzo possibile: in cammello, a cavallo, su carri trainati da buoi, persino a piedi. Kolmanskop diventò un crocevia di avventurieri e speculatori ossessionati dal desiderio di accaparrarsi campi diamantiferi così ricchi che all’inizio le gemme venivano raccolte con le mani, di notte, quando il caldo infernale si attenuava e brillavano sulla sabbia alla luce della luna.

L’unico a non guadagnarci fu il povero Zacharias perché Stauch sarà anche stato un sognatore però pare che non gli abbia dato nulla, e quando scoppiò una crisi dell’industria dei diamanti il poveretto fu sbattuto senza neanche un grazie su una nave e deportato in Sud Africa con molti compagni di lavoro. Non andò molto meglio neanche ad Adolf Lüderitz che era riuscito a convincere uno scettico Bismarck a dichiarare la Namibia protettorato tedesco, perché morì nel 1886 in un naufragio alla foce del fiume Orange prima di sapere che tesoro nascondeva il «suo» deserto.

In soli sette anni le miniere del Süd West Afrika produssero oltre cinque milioni di carati, ma il caos diventò tale che l’ordinata amministrazione coloniale tedesca nel settembre del 1908 proclamò la Sperrgebiet, la Zona Proibita dei diamanti che da allora è diventata una impenetrabile mecca di sogni proibiti per generazioni di ladri, avventurieri, sognatori e truffatori.

Sono stati la fortuna e la maledizione di Kolmanskop, i diamanti; loro l’hanno creata e loro ne hanno causato la lenta agonia quando la scoperta di nuovi giacimenti spostò il cuore della Sperrgebiet vicino a Oranjemund, la quinta città della Namibia tuttora chiusa a occhi estranei. Da allora i centri del primo boom diamantifero si sono trasformati in città fantasma, compresa Kolmanskop, l’ultima a essere abbandonata nel 1956, e il silenzio è calato su queste case allineate con rigore prussiano sul fianco della grande duna nel cui ventre stanno per scomparire. Ultime memorie di un mondo borghese che da una comoda vita nelle sofisticate città tedesche dell’epoca si ritrovò catapultato in uno dei luoghi più desolati della terra.

L’atmosfera germanica

In un piccolo museo, foto sbiadite fanno rivivere spezzoni di questo microcosmo tedesco tenuto in vita da balli, feste di carnevale, recite scolastiche, picnic tra le dune di signore costrette a trascinare tra vento e sabbia vestiti pensati per i viali di Berlino. Quello che le foto non mostrano sono le baracche lager dove vivevano ammassati come schiavi gli operai di colore, che quando chiedevano di andare a trovare le famiglie nei loro lontani villaggi prima venivano «purgati» con olio di macchina per controllare che non avessero ingoiato qualche gemma.

Nel silenzio delle corsie del vecchio ospedale, uno dei più avanzati dell’Africa australe, sembra di sentire ancora il fruscio dei camici immacolati di medici e infermiere. Al tramonto gli ultimi raggi di sole illuminano mulinelli di sabbia che scivolano dentro le case come un sudario mortale, magari insieme al fantasma di qualche contabile tornato nei luoghi dove ha consumato la sua vita e i vecchi infissi cominciano a cigolare come se fossero stanchi, anche loro, della fatica di vivere in questo deserto che fa impazzire in fretta.

Una lunare assenza di vita, non troppo diversa da quella della vicina Luderitz, che dopo la Prima guerra mondiale ha perso la «ü» tedesca passando sotto l’amministrazione sudafricana, ma non la sua skyline di tetti a punta da porto del Baltico perduto tra le dune da cui emerge la guglia della Felsenkirche. È la vecchia chiesa dove un Lutero un po’ spaesato si affaccia da una vetrata guardando con rassegnazione una volontaria che rimette in ordine pile di libri di preghiera in una chiesa sempre più vuota. «Servono a poco ormai» sospira Karla che viene da Windhoek, la capitale, per dare una mano, «le persone di origine tedesca sono troppo poche per fare una comunità. Qui arrivano soprattutto poveracci in cerca di lavoro nella pesca o nelle miniere e i pochi giovani se ne vanno, a studiare o in cerca di un futuro migliore».

Tra i vecchi rimasti c’è ancora qualcuno che ogni 27 gennaio festeggia il compleanno del Kaiser come facevano nonni e genitori, bevendo l’unica birra distillata fuori dalla Germania che segue ancora i rigidi dettami della Reinheitsgebot, la «legge della purezza» proclamata nel 1516 dal duca di Baviera.

Sono rimaste le tracce del loro passaggio, l’imponente Goerke Haus costruita secondo una leggenda locale nientemeno che per ospitare il principe ereditario tedesco, e strade dai nomi improbabili per queste latitudini. Molte sono dedicate a eroi e padri della patria della Germania imperiale, da Moltke a von Bülow, ma sotto la targa di Kort Straat affiora ancora un’imbarazzante Göringstrasse. Nella Turnhalle, la palestra d’epoca coloniale, si intravede il motto Frisch, fromm, fröhlich, frei, ist die deutsche turnerin. «La ginnasta tedesca è Fresca, Devota, Allegra, Libera».

La speranza di un luccichio al chiar di luna

Il tempo sembra essersi fermato in questa città impregnata di nostalgia ma che da sempre deve lottare per sopravvivere perché, dopo l’indipendenza, Luderitz è cresciuta più di ogni altra città della Namibia sebbene adesso le flotte di pescherecci oceanici depredino la costa.

Molti perdono il lavoro ma non riescono ad andare via da questa microscopica Germania guglielmina che si trova alla fine di una strada che porta solo qui, circondata dalla Sperrgebiet, una sorta di repubblica autonoma dei diamanti controllata dalla Namdeb, joint venture tra il colosso diamantifero De Beers e il Governo namibiano. Il loro motto, On diamonds we build, «Noi costruiamo sui diamanti», troneggia ovunque a Luderitz, dove, ai tempi d’oro, persino i baristi dell’hotel Kapps, estemporanea sede di una pittoresca borsa del diamante, venivano pagati in gemme.

Basta pagare qualche birra per sentirsi raccontare mirabolanti storie. C’è chi rievoca suo nonno, un maestro di scuola a cui i bambini ogni tanto offrivano diamanti avvolti in fazzoletti di cotone, e chi dice di conoscere un tale capace di fregare persino la polizia, che mentre lo perquisiva non aveva fatto caso a un blocco di cemento sul retro del pick-up, che ufficialmente serviva a sostenere il cric sulla sabbia in caso di foratura, ma in realtà nascondeva all’interno un bel gruzzolo di diamanti. Le hanno provate tutte per violare la Zona Proibita, dove è vietato persino tenere piccioni, utilizzati per nascondere le gemme in ferite appositamente inflitte agli uccelli, per non parlare di microscopiche mongolfiere o di altri sistemi di cui nessuno parla, forse perché hanno funzionato.

Oggi i fantasmi di Luderitz si materializzano solo nei weekend, lavorano nelle fabbriche di pesce o nelle miniere, sono neri, parlano un tedesco degli anni Cinquanta e vengono qui per farsi una casetta nei loro villaggi, non certo per vivere tra queste strane case atterrate da un mondo lontano. Li vedi per un attimo, in fila davanti ai bancomat, prima che svaniscano in un bottle store a comprare qualcosa per sbronzarsi fino al lunedì, rintanati in casa per sfuggire al vento e al caldo. Magari sperando che un giorno i diamanti ricomincino a luccicare al chiaro di luna.