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Kolkhoz: echi di un’epoca passata

Accanto alla desolazione del bacino del Mare d’Aral, i resti dei kolkhoz, le fattorie collettive che un tempo dominavano il paesaggio agricolo della regione, si ergono come echi di un’epoca passata. Questi complessi tentacolari, i cui campi producevano grandi quantità di cotone per soddisfare l’insaziabile domanda dell’Unione Sovietica, sono ora in decadenza.

Quello del kolkhoz è un concetto profondamente intrecciato con la storia dell’Uzbekistan. Il kolkhoz era una cooperativa agricola in cui la terra apparteneva allo Stato e i contadini erano responsabili della sua coltivazione. Un kolkhoz poteva avere dimensioni contenute oppure espandersi fino a comprendere più villaggi e coprire oltre cento ettari di terreno. I contadini che coltivavano il cotone venivano pagati dalle fabbriche tessili, potendo trattenere tutti i loro guadagni.

Prima della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, l’Uzbekistan aveva un’economia di mercato. Ciò significa che i contadini potevano coltivare quello che volevano e venderlo liberamente. Con l’avvento del sistema sovietico, tutto ciò che veniva prodotto divenne proprietà dello Stato e i contadini persero la proprietà della terra, oltre che la libertà di scegliere cosa coltivare. Molti artigiani furono costretti a chiudere le loro botteghe e lavorare nelle fabbriche statali e questo fenomeno portò alla scomparsa di diversi mestieri tradizionali.La collettivizzazione forzata e la requisizione dei raccolti portarono a una grave carestia tra il 1930 e il 1934, causando milioni di morti in Asia centrale e Ucraina. Questo trauma ha lasciato un segno profondo nella memoria collettiva degli uzbeki, che ancora oggi temono di possedere beni per paura che possano essere confiscati.

Fino al 2016, parlare di cotone o portare turisti nei campi era tabù, un’eredità del sistema sovietico che il governo uzbeko cercava di nascondere. La politica sovietica mirava a rendere l’Uzbekistan il principale produttore di cotone dell’Urss e, sebbene la legge non consentisse il lavoro forzato, la realtà era molto diversa e gli uzbeki, compresi i bambini, erano obbligati a raccogliere il cotone, soprattutto tra settembre e novembre, periodo nel quale anche le scuole chiudevano.

Il governo uzbeko temeva che le fotografie scattate dai turisti potessero rivelare questo sistema di lavoro forzato al mondo intero. L’attuale presidente Shavkat Mirziyoyev, eletto nel 2016, spinse l’Uzbekistan verso un’agricoltura più democratica ritirando il sostegno statale al lavoro forzato, aumentando i salari per i raccoglitori di cotone, ponendo fine al monopolio statale sull’industria dello stesso e organizzando la sua produzione attorno a società private. Tale iniziativa contribuì a rendere il cotone uzbeko di nuovo competitivo dopo anni di boicottaggio da parte di aziende internazionali.

La coltivazione del cotone richiede molta acqua che in Uzbekistan scarseggia, nonostante specchi d’acqua e fiumi siano visibili un po’ ovunque, sorvolando le campagne con l’aereo o spostandosi in auto. Il fiume Zarafshan, soprannominato «fiume d’oro», è prosciugato per gran parte dell’anno e l’Amu Darya, un tempo alimentata dai ghiacciai del Pamir, sta diminuendo di portata. Si teme che il canale artificiale Qosh-Tepa, progettato dall’Afghanistan, ne ridurrà ulteriormente il flusso.

Oggi l’Uzbekistan utilizza il 50% della sua superficie per coltivare cotone, anche se non ai livelli del periodo sovietico. A partire dalle riforme di Mirziyoyev, l’Uzbekistan sta cercando di trasformare il suo sistema agricolo, allontanandosi dal modello sovietico e promuovendo pratiche più sostenibili. La raccolta del cotone forzata è stata abolita e i contadini hanno ora più libertà di scegliere cosa coltivare.

Il kolkhoz, un tempo simbolo del sistema sovietico, sta scomparendo, lasciando il posto a un’agricoltura più diversificata e rispettosa dell’ambiente. Il Paese sta compiendo passi importanti verso un futuro più sostenibile.


La riva perduta del lago d’Aral

Un’assenza raccontata attraverso fondali prosciugati, città fantasma e kolkhoz abbandonati
/ 11/11/2024
Simona Dalla Valle, testo e foto

«Rahmat», acca aspirata e una mano sul petto all’altezza del cuore. Una parola e un gesto che qui valgono più di ogni altra forma di comunicazione. Mi trovo nella repubblica del Karakalpakstan, soprannominata «Stan tra gli Stan» e anticamente parte del Khorezm, regione storica il cui popolo era solito costruire grandi fortezze di fango per proteggersi dai predoni nomadi.

«Rahmat» e mano sul cuore, è così che ringrazio l’autista dopo che mi ha allungato un pezzo di fatir (pane azzimo) alla cipolla. Senza farlo apposta, si chiama Rahmation,  nome che rimanda a un sentimento di misericordia, compassione, gentilezza. Mangio in silenzio il pane delizioso della valle di Fergana, più croccante e saporito del non, presente in tutte le bancarelle uzbeke. Il viaggio verso il lago Aral è appena iniziato e occuperà gran parte della giornata.

Diverse volte mi sono chiesta cosa andavo a cercare nelle acque di un lago puzzolente, inquinato e lontano nel pieno della чилля o chillya, i quaranta giorni più caldi e soffocanti dell’anno. E la risposta me l’ha data il viaggio intrapreso per raggiungerlo: la sua assenza. Il lago (o mare) d’Aral, un tempo vasto bacino brulicante di vita, è oggi una testimonianza delle devastanti conseguenze dell’intervento umano nel mondo naturale.

Situato tra il Kazakistan e l’Uzbekistan, era un tempo il quarto lago più grande della Terra e le sue acque sostenevano un ricco ecosistema e vivaci comunità di pescatori. Negli anni Sessanta, l’Unione Sovietica, spinta dall’ambizione di diventare un grande esportatore di cotone, deviò i fiumi che lo alimentavano, l’Amu Darya e il Syr Darya, provocando un rapido e drammatico declino delle acque del lago. Già nel 2010 l’Aral aveva perso oltre il 90% del suo volume originario e il suo fondale prosciugato si era trasformato in una polvere tossica.

Un viaggio verso un lago che sta scomparendo non fa che acuire l’attenzione per tutto quello che invece, inspiegabilmente e quasi insolentemente, continua a esistere. Sono oltre 300 i chilometri da percorrere per arrivare alle coste dell’Aral, e il percorso è nonostante tutto confortevole fino al bivio poco prima di Kungirot, dove ci fermiamo per una pausa. Il Kafé Konyrat è un po’ un’istituzione per chiunque si avventuri da queste parti, uno dei pochi esercizi rimasti in un territorio alquanto desolato. Dopo un pasto frugale a base di ciuffi di aneto, un ingrediente che scoprirò essere onnipresente in Uzbekistan, ripartiamo.

Sulla carta, la statale 4P173 tra Kungrad e Muynak appare come un rettilineo semplice, poco frequentato e privo di insidie. In realtà è costellata da buche, e per evitarle Rahmation è costretto a improvvisare continui slalom invadendo la corsia opposta o uscendo dalla carreggiata. Inizia così un incessante percorso a ostacoli che durerà quasi due ore. Intorno a noi il terreno diventa sempre più spoglio. Alle porte di Muynak, un grande totem con i colori della bandiera uzbeka (turchese, verde e bianco) avverte dell’ingresso in città.

Quando il lago d’Aral era un luogo di pesca fiorente, era circondato dai deserti del Karakum e del Kizilkum. L’economia di Muynak, lambita dalle acque del lago, era basata interamente sulla pesca. Oggi la cittadina si trova a 150 km dal tratto di costa più vicino e vive di turismo. La sua attrazione principale è il lugubre «cimitero delle barche», una manciata di imbarcazioni arrugginite su una distesa di sabbia e polvere: in molti hanno inciso il proprio nome sulla ruggine arrampicandosi sulle lamiere. Non è raro imbattersi in coppie di fidanzati che si scattano un selfie emulando Di Caprio e Winslet sulla prua del Titanic.

Il museo di Muynak ospita una vasta esposizione di dipinti, fotografie e filmati sulla vita del lago nel periodo del suo massimo splendore. Le tempeste di polvere velenosa (Aralkum, «sabbia dell’Aral») sollevate dai forti venti sul fondale marino prosciugato e inquinato hanno provocato malattie croniche e acute tra i pochi residenti che hanno scelto di rimanere, la maggior parte dei quali di etnia karakalpak, e il clima non più moderato dal bacino investe ora la città con estati più calde e inverni più freddi del consueto.

A Muynak passiamo a una jeep 4x4. Scoprirò presto il perché. Con Muynak alle nostre spalle l’asfalto cede spazio alla sabbia e la strada diventa deserto, le uniche tracce di vita sono i segni delle gomme dei mezzi che ci hanno preceduti. Dopo un’ora si inizia a intravedere la silhouette dell’altopiano di Ustyurt, ma non ci arriviamo avvicinandoci trasversalmente a esso, bensì viaggiando in una direzione che sembra parallela alla sua lunghezza per un tempo interminabile. Intorno, solo sabbia, pietre e una vegetazione bassa e incolore.

La salita verso l’altopiano è così ripida che sembra quasi verticale. In alto, una sbarra regola gli accessi all’altopiano; il guardiano scambia due parole con Abdulla, il mio nuovo autista, prima di richiuderla dopo il nostro passaggio, e la sua sagoma nello specchietto retrovisore si fa sempre più piccola finché non scompare dalla vista.

L’altopiano di Ustyurt un tempo era crocevia di civiltà: qui passavano le carovane dirette a Khorezm e per secoli questa strada fu utilizzata da chi voleva raggiungere rapidamente l’Asia centrale da nord. Il lungo tratto sull’altopiano era considerato la parte più difficile e pericolosa del percorso. Da qui si gode di una vista ininterrotta sui canyon e i deserti circostanti e, più in fondo, sul bacino del Mare d’Aral. Sparsi lungo il percorso tra cespugli e pozze d’acqua dai bordi bianchi di sale, testimoni di un acquazzone recente, giacciono i resti di antichi petroglifi e tumuli.

Ogni curva sembra la copia esatta della precedente e, non fosse per il sole, la sensazione sarebbe quella di aver girato in tondo. La discesa dall’altopiano è altrettanto ripida, e presto compaiono alla vista altri veicoli. Ci sono volute sette ore, ma siamo alla costa. Abdulla ferma la jeep e mi fa cenno di seguirlo. A pochi metri dall’acqua, una fanghiglia scura mi si attacca ai piedi. Davanti a me alcune persone si immergono, le loro calzature sono abbandonate sul bagnasciuga e una schiuma biancastra viene sospinta dalle onde.

Dopo aver perso il 90% della sua superficie, l’ecosistema del Mare d’Aral è collassato completamente. Tutta l’acqua che entra nel lago a un certo punto evapora, lasciando dietro di sé sali e minerali. L’altissima concentrazione di sale lo rende simile al Mar Morto, per cui si galleggia molto facilmente, ed è anche il motivo per cui nessun pesce può sopravvivere nel lago. Oggi, quanto rimane di ciò che fu l’Aral ha una superficie pari a circa un decimo delle dimensioni originali. Eppure, anche in assenza, il Mare d’Aral rimane una presenza potente. I fondali essiccati, le città fantasma, i kolkhoz (collettivi agricoli) abbandonati, parlano del profondo impatto dell’intervento umano sul mondo naturale. La storia del lago d’Aral è un ammonimento a camminare con cautela su questo pianeta, perché le nostre azioni possono avere conseguenze che si ripercuotono sulle generazioni a venire.

Dal Louvre della steppa all’orologio dell’apocalisse

Fondato dall’artista e storico dell’arte sovietico Igor Savitsky, il museo Savitsky di Nukus è soprannominato il «Louvre della steppa». Il fondatore arrivò in Asia centrale partecipando a una spedizione archeologica con il compito di disegnare le fortezze e i manufatti di uso quotidiano del Khorezm trovati durante gli scavi. Tanto rimase incantato dall’arte popolare dei Karakalpak che vi tornò nel 1957 per stabilirvisi a lungo termine, dedicandosi alla ricerca archeologica ed etnografica del popolo Karakalpak. Negli anni collezionò oggetti di ogni tipo guadagnandosi il soprannome di «rigattiere» insieme a dipinti d’avanguardia che altrimenti sarebbero andati distrutti dal regime sovietico, che promuoveva esclusivamente il realismo socialista. Oggi la collezione del Museo Savitsky comprende più di 90mila oggetti, e i quadri d’avanguardia collezionati da Savitsky con passione maniacale oggi valgono milioni di dollari alle aste più prestigiose dell’Occidente.

Un antico luogo di sepoltura situato vicino alla città di Nukus, quella di Mizdakhan è una delle necropoli più grandi e importanti dell’Asia centrale, con tombe e mausolei risalenti al I secolo d.C.. La necropoli è una testimonianza del ricco patrimonio culturale della regione e della sua lunga storia di insediamento umano. Una leggenda narra che nel cimitero sia nascosto un sinistro «orologio dell’apocalisse» che scandisce il tempo che ci separa dalla fine del mondo. Ogni anno, un mattone si stacca dalla sua parete, segnando l’inesorabile avvicinarsi dell’apocalisse. Quando l’ultimo mattone cadrà, il destino dell’umanità sarà segnato.

I castelli del deserto dell’antica Khorezm, tradizionalmente noti come Elliq Qala (cinquanta fortezze uzbeke e karakalpak), sono un insieme di fortezze oggi incluse nella Lista provvisoria dell’UNESCO per lo status di Patrimonio dell’Umanità. Occupata dall’uomo fin dal Paleolitico, Khorezm divenne in seguito uno Stato indipendente e a partire dal IV secolo fu soggetto a molteplici attacchi, tra cui quelli degli Unni, dei Turchi e, più tardi, degli Arabi. Gli Afrighidi (305-995) portarono una certa stabilità, ma continuarono a fortificare Khorezm per proteggere il territorio e i commerci via terra. Ayaz Qala è un sito archeologico con tre fortezze, la più antica delle quali risale al IV secolo a.C. Con una superficie di 17 ettari, Topraq Qala ospitava una popolazione di 2500 persone e fungeva anche da residenza reale. Chilpik Kala, sulla via che collega Nukus a Urgench, era un luogo di sepoltura zoroastriano: i morti venivano trasportati qui affinché il sole e gli uccelli potessero decomporre il cadavere.