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Quando si aprono le porte dell’inframundo
In Messico el dia de los muertos si adatta alla globalizzazione delle anime perdute, tranne che a Huautla de Jimenez
Enrico Martino, testo e foto
Per incontrare le anime bisogna aspettare la notte di fine ottobre e arrancare su uno sgangherato pick-up lungo una pista che pare piuttosto un rosario di cantinas da cui l’autista cerca di buttar fuori passeggeri con un tasso alcolico ormai incontrollabile. Dal buio che avvolge il grappolo di case di Chicotla, filtra il suono straniante di un violino, poi senza uno straccio di preavviso una porta si spalanca su un uragano di luci, suoni e facce mostruose. Sono gli huehuentones, maschere inquietanti che ballano al suono lento degli archi mentre i bambini li sbirciano con gli occhi sgranati, nascosti dietro una tenda. Non si sa mai cosa può succedere con i messaggeri dell’Inframundo, il tenebroso mondo sotterraneo preispanico che per secoli conquistadores e inquisitori hanno invano tentato di contrastare.
Tornano ogni anno per raccontare storie, ma la vera ragione del loro lungo e faticoso viaggio dall’Aldilà è mediare conflitti familiari e sociali, generalmente con successo, perché è molto più complicato mandare al diavolo chi arriva dall’Altro Mondo che un vicino ficcanaso. Gli huehuentones un tempo si materializzavano indisturbati solo tra queste montagne della Sierra Madre che sembrano un puzzle in progress di nuvole e pioggia, ma tra loro si aggirano sempre più spesso streghe di Halloween, Frankenstein e mostri dei fumetti giapponesi, una globalizzazione delle anime che tra le tombe aggrappate a una collina del cimitero di Huautla de Jimenez va in scena a mezzanotte del 31 ottobre, quando una salva di botti rimbomba attraverso le vallate annunciando il ritorno dei defunti.
«Mira el primero a velar es el pinche gringo» («guarda, il primo ad accendere le candele è il fottuto gringo») sghignazza un ceffo della policia municipal. Sguardi sospettosi, battute a mezza voce, ma col passare delle ore svanisco anch’io dentro questo mare di candele da cui affiorano solo volti evanescenti. Un’atmosfera da riunione di famiglia che i morti assaporano golosamente prima di tornarsene nell’Inframundo, donne si scambiano confidenze, emigrati chicanos scolano l’ultima cerveza ascoltando con gli occhi umidi il canto triste degli huehuentones prima di tornare al nord, nel paese dei gringos, qualche adolescente guarda compunto la tomba del nonno al ritmo di rap che filtra dagli auricolari.
Così, quell’unica volta all’anno in cui una folla di anime si dirige verso casa per respirare profumi e sapori della vita di un tempo, i parenti le festeggiano con fiori colorati, dolcetti, e tutto quello che un tempo le faceva felici. Ogni sperduto angolo del Messico si trasforma in un’orgia surrealista, è San Valentino, la Festa della Mamma, Halloween, i vivi e i morti tutti insieme, tra piramidi di calaveras, i crani di zucchero filato, bare di cioccolato su cui il nome dell’amata viene scritto con delicati colori pastello, scheletri di carta, di legno, di plastica e di ogni materiale umanamente concepibile.
La festa de el dia de los muertos è una tradizione così profonda e radicata da essere stata dichiarata dall’UNESCO «Capolavoro dell’Orale e intangibile Patrimonio dell’Umanità» ma a Huautla de Jimenez, in cima a una strada che sembra non finire mai, probabilmente neanche lo sanno. Sulla piazza del mercato cani famelici si aggirano tra manifesti slabbrati di vecchie campagne elettorali e utensili da cucina che gruppi di mazateche (ndr: società nativa americana) guardano cupidamente. Sullo sfondo, solo il giallo quasi fosforescente del tiringuini-tzitziqui – il «Fiore dei morti» azteco che riesce a bucare persino il velo di pioggia – ricorda che siamo alla vigilia del Dia de Muertos.
A Huautla de Jimenez i dolcetti i morti se li sognano, al massimo possono sperare in qualche pan de las animas, ma andrà bene lo stesso perché anche loro sanno che è difficile sfangarla per tutti su queste montagne dove l’unico effimero momento di gloria si è consumato ai tempi della «rivoluzione psichedelica», quando la celebre sciamana Maria Sabina rivelò al mondo degli altri, il nostro, il potere degli hongos, i funghi allucinogeni.
Oggi queste montagne di nebbie e immagini quasi illusorie sono forse l’ultimo rifugio di un Dia de Muertos che giù a valle, a Oaxaca, si è ormai trasformato in una fiesta mobile di teatrali processioni di zombie e calaveras pronti a offrire un bicchiere di mezcàl a chiunque, turisti o anime perdute.
Tutta un’altra storia rispetto alle atmosfere che aleggiavano fino a pochi anni fa sul lago di Pátzcuaro nello Stato di Michoacán, il «luogo dell’oscurità» dove, secondo gli indigeni P’urhépecha, una porta d’accesso all’Inframundo sarebbe nascosta tra gli anfratti dell’isola di Janitzio che in autunno la nebbia avvolge come un’ovatta scura.
Per attraversare il lago, avevo così seguito un corteo di ombre silenziose e infagottate in vecchie coperte, dirette verso una lancia carica di trombe e violini. Senza una parola sono stato accettato a bordo dell’Esmeralda con il suo motore asmatico che arrancava in un nulla grigio-acciaio fino a quando l’isola si era materializzata come un fantasma sospeso su matasse d’alghe galleggianti. I p’urhépechas avevano attaccato una delle loro musiche struggenti mentre una micidiale raffica di petardi annunciava Kejtzitakua zapicheri, la cerimonia in ricordo dei bambini morti nel corso dell’anno. Le prime luci dell’aurora avevano illuminato le ofrendas davanti alle piccole tombe, giocattoli, dolcetti e piccoli animali su archi in legno ricoperti di fiori simili a gigantesche farfalle, mentre amiche e parenti lasciavano cadere con infinita dolcezza petali di fiori sui capelli delle madri.
Oggi invece a Janitzio forse persino le anime preferiscono restarsene nell’Inframundo per non essere travolte da cori di ubriachi e lamentosi ululati di orchestrine di mariachis di quart’ordine. Sembra la fine di un mondo impregnato di tradizioni antichissime, eppure il miracolo arriva lo stesso, e lo fa un istante prima dell’alba, quando solo un mare di candele illumina un surreale banchetto di ofrendas e i volti senza tempo delle p’urhépechas impegnate in un incessante sussurrare che sembra uno stormire di fronde. Ogni tanto qualcuna raddrizza una candela che sembra crollare, anche lei travolta dalla fatica, parlano con i loro morti le donne p’urhépechas, raccontano storie di famiglia, magari chiedono come si vive a Cumichùcuaro, la regione più profonda dell’Inframundo, o che tipi sono Uitzume il Cane d’acqua e Ucumo il Roditore che regnano sul mondo dei morti.
L’alba arriva troppo rapida e le silhouette nere dei vulcani che sembrano galleggiare sul blu profondo del lago emergono dalla notte mentre le famiglie abbandonano, rapide e silenziose, fiori spezzati e mozziconi di candele, le ultime tracce di una lunga trance collettiva. «La morte è come un fiore – racconta un canto p’urhépecha – è come la farfalla, è solo volare. Morire è solo un gran sogno».