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Il canto delle ultime sirene nel leggendario Delta del Nilo

Oggi la fertile terra del greto della foce fluviale sulla cui costa sorge Alessandria d’Egitto è un campo di battaglia per salvare     l’acqua e la terra indispensabili alla sopravvivenza di oltre cento milioni di egiziani
/ 07/10/2024
Enrico Martino, testo e foto

Le sirene del Delta. Le ho sentite per giorni, ma non erano avvenenti creature nascoste tra gli ormai quasi inesistenti papiri, bensì auto della polizia che mi scortavano spingendo quasi fuori dalla carreggiata furgoncini e auto in un rosario di colorite maledizioni. D’altronde, da sempre, il Delta del Nilo è una delle aree più strategiche dell’Egitto. Per capirlo basta guardare un’immagine della Valle del Nilo dal satellite, un oceano di sabbia tagliato dalla striscia verde del fiume che serpeggia faticosamente verso il grande triangolo del Delta da oltre cinque milioni di anni; da quando il Nilo si scavò un letto fino al Mediterraneo portando la vita. Ecco perché, forse, non è un caso che l’Ankh, antico Simbolo della Vita, ricordi una mappa dell’Egitto in cui la parte circolare rappresenta il Delta.

Lungo il Nilo, in tempo di pace, passavano ferro, spezie, rame, mentre sempre da qui, ma in tempi di guerra, si difendeva l’Egitto da qualsiasi invasore (nubiani, libici, persiani, macedoni, arabi, turchi francesi e inglesi) a partire dagli Hyksos, i misteriosi conquistatori semiti che introdussero nel Paese i carri da guerra e il cavallo. Chi controllava il Delta, controllava l’Egitto da questo triangolo impastato d’acqua tra Africa e Asia dove Kemet – che si traduce in «Terra Nera» a indicare quella del greto del Delta (antitesi di Deshret la «Terra Rossa» del deserto) – sarebbe diventata la protagonista indiscussa di oltre settemila anni di storia, e soprattutto il motore di uno sviluppo agricolo che avrebbe favorito la nascita del primo Stato del Mondo Antico.

Tani e I predatori dell’Arca Perduta

«Qui c’erano più obelischi che in tutto il resto dell’Egitto, che poi sono finiti ovunque, da Roma a Port Said. Solo la gente dei villaggi viene ancora ogni tanto a Tani per risolvere i suoi problemi. Soprattutto le donne che vogliono avere figli. Sono convinte che lui porti loro fortuna» sospira un solitario custode indicando una statua spezzata di Ramses II, la parte inferiore che si alza verso il cielo, la parte superiore distesa in un gigantesco cataclisma di pietre sparse in una pianura arsa dal sole, avvolta da un silenzio rotto solo dal rauco richiamo di un muezzin tra le case polverose del villaggio oltre il cimitero.

Oggi quasi nessuno sa nemmeno dove si trovi Tani, che nell’undicesimo secolo avanti Cristo controllava il Delta e il suo ultimo, labile sprazzo di gloria è legato a un film che ha creato l’icona cult di un esperto di archeologia, I predatori dell’Arca Perduta dove Indiana Jones gigioneggiava per salvare l’Arca da un archeologo francese in combutta con i nazisti.

Proprio a Tani, secondo alcuni studiosi, sarebbero nascoste le tracce di una presenza ebraica ai tempi della nascita di Mosè. Un enigma mai svelato, l’unica certezza è che qui negli anni Trenta del secolo scorso gli archeologi francesi scoprirono gli splendidi corredi funerari di alcune tombe reali oggi conservati al Museo del Cairo, uno scoop archeologico da prima pagina, ma purtroppo per loro in quegli anni il mondo era troppo occupato dall’arrivo della Seconda guerra mondiale.

Tani è un’immagine svanita per sempre, una sfida per l’immaginazione perché il terreno impregnato d’acqua ha cambiato la geografia del sito, non un solo tempio è rimasto in piedi e gli eserciti sono stati sostituiti da uno spericolato fiume di camion sull’autostrada che collega direttamente il Cairo ad Alessandria, attraversando una regione certamente meno spettacolare della Valle del Nilo, ma indispensabile per capire l’Egitto.

Contadini e coltivazioni

La maggior parte delle terre coltivabili del Paese, un misero tre per cento, è infatti nel Delta e persino Napoleone aveva sentenziato in una delle sue fatidiche previsioni, stavolta azzeccata: «Con una buona amministrazione il Nilo vince il deserto, con una cattiva il deserto vince il Nilo».

Alla metà del secolo scorso, nel Delta, 5 milioni di egiziani avevano a disposizione oltre 12 milioni di metri quadrati di terra coltivabile. Oggi poco più di 17 milioni di ettari sono disponibili per 72 milioni di abitanti. Da mezzo secolo la diga di Aswan blocca le inondazioni e, con loro, i sedimenti di limo; le deviazioni delle acque hanno alterato il ritmo del fiume, e l’enorme uso di fertilizzanti in una delle aree più intensamente coltivate del mondo sta provocando altissimi livelli di salinità. I prodotti chimici minacciano anche la sopravvivenza della pesca e se l’Egitto aveva il 25% delle terre umide del Mediterraneo fino agli anni Ottanta, oggi la costa arriva ad abbassarsi di tre centimetri l’anno. Sfide epocali, a cui gli scienziati egiziani tentano di rispondere lavorando per creare piselli, patate e meloni più resistenti a virus, insetti e stress ambientali.

Oggi la fertile terra del Delta è un campo di battaglia per salvare l’acqua e la terra indispensabili alla sopravvivenza di oltre cento milioni di egiziani, messa a rischio da una crisi climatica sempre più evidente, dall’aumento delle temperature e dall’innalzamento del livello del mare. Lungo i canali, però, tra innumerevoli ritratti del presidente Abdel Fattah al-Sisi che sorride davanti alla Sfinge o guarda crescere le messi in blazer blu, i contadini continuano la vita di sempre, la stessa descritta nel Diario di un procuratore di campagna di Tawfiq al-Hakim, un amaro ritratto scritto nel 1937 ma sorprendentemente attuale di un Egitto profondo in cui uno Stato lontano e assente governa le vite di tutti.

«I profumi dell’infanzia? Ci sono solo quelli al villaggio, però io ne ho avuto abbastanza» sospira Mahmoud, un laureato in storia e archeologia che lavora al Cairo ma è nato vicino a El Mansoura. «Mio nonno ha costruito la moschea del villaggio ma ormai sono posti per vecchi, non ci sono neanche internet e McDonald. Magari quando andrò in pensione mi ritirerò a fare il contadino, ma lì se sei malato non c’è l’ospedale, non ci sono scuole per i bambini e i contadini ancora oggi lavorano dall’alba a notte fonda».

L’acqua potabile ha raggiunto i villaggi ma molti contadini usano ancora quella dei canali inquinata da parassiti, pesticidi e fertilizzanti che contribuiscono a malattie come la bilharziosi. L’urbanizzazione si è mangiata molte terre coltivabili, facendone salire il prezzo a livelli tali da costringere molti fellah (contadini) all’emigrazione verso la capitale e c’è stato persino un preoccupante aumento di casi di suicidio tra gli stessi. Chi rimane si aggrappa alla fede per il suo Dio partecipando a qualche mawlid, pellegrinaggi che sono essenzialmente occasioni di incontro, prove di convivenza di una terra in cui si vive insieme da sempre nonostante fanatismi e integralismi.

Tanta, capoluogo di Gharbiya

I musulmani si recano a Tanta, famosa per i suoi dolci e per una moschea che durante il mawlid in onore di Syed Ahmad al-Badawi attira anche molti cristiani. «Era un venerato sufi nato in Marocco e apparteneva alla famiglia di Maometto ma era anche un grande studioso» spiega infervorato il decano della moschea tra una chiamata e l’altra di un cellulare, dotato di un’imperdibile suoneria che recita versetti del Corano. «Anche qui, sono arrivati smartphone e computer, ma la vita è vita e le famiglie continuano a essere le famiglie» sorride sornione. La pensa nello stesso modo anche padre Botros durante il mawlid di Santa Damiana, guardando vecchi bus che sembrano liquefarsi nel calore della pianura del Delta da cui scendono folle di pellegrini, giovani e vecchi tutti insieme tra cui molti musulmani, disposti a convivere per giorni in giacigli accatastati persino dentro la chiesa. «Le nuove generazioni devono mantenere le tradizioni, non è come in Europa o negli Stati Uniti, fare il monaco è l’ideale di ogni fedele».

In fuga dalla megalopoli

Qualche decina di chilometri a nord del Cairo un pellegrinaggio molto diverso va in scena a bordo dell’Horus, un battello che al posto di devoti fedeli ha imbarcato famiglie in fuga per un giorno dal sovraffollamento della megalopoli e torme di scatenati teenager, rigorosamente maschi, che improvvisano balli indiavolati al ritmo di giganteschi altoparlanti che fanno vibrare persino l’aria stagnante del Nilo. Nel frattempo, a bordo, l’attrazione sono io perché nel Delta la presenza di stranieri è a dir poco scoraggiata senza autorizzazione e una scorta ufficiale, ma nessuno controlla questi battelli e così mi sono imbarcato per raggiungere le dighe di Qanater, dove tutti si precipitano a terra per un picnic all’ombra degli alberi o sotto festoni di lampadine che addobbano grandi tendoni.

Qui il Nilo si divide in due bracci che si allargano marcando languidamente i confini del grande triangolo del Delta da cui rimane fuori per pochi chilometri la leggendaria Alessandria d’Egitto, la città più importante del mondo ellenistico fondata nel 331 avanti Cristo da Alessandro Magno. Il suo imponente faro di Pharos era una delle sette meraviglie del mondo antico e la sua Grande Biblioteca era considerata l’archivio del sapere antico. Poi il faro crollò, la Biblioteca fu incendiata, l’antica Alessandria scomparve sotto il mare coi suoi edifici, compreso il leggendario palazzo di Cleopatra, oggetto proibito del desiderio per generazioni di archeologi.

Un passato glorioso quasi svanito nel nulla, all’altezza dello spericolato destino di una città capace di riemergere come un’Araba Fenice nel XIX secolo grazie a una strategica posizione commerciale tra Mediterraneo e Mar Rosso che attirò una brillante e spregiudicata società cosmopolita. Altro colpo di spugna dopo la crisi di Suez del 1956, quando tutti capirono che i bei tempi erano finiti e si dispersero per il mondo lasciando caffè spesso fatiscenti lungo quella che un tempo era l’orgogliosa Corniche sul lungomare, dove la nuova imponente Biblioteca di Alessandria è l’unico simbolo sopravvissuto del suo antico ruolo di capitale culturale.

Nel frattempo, dopo la conquista ottomana del 1517, il porto più importante dell’Egitto era diventato Rashid, più conosciuta come Rosetta e famosa soprattutto per una scoperta che cambiò la storia dell’archeologia, la celeberrima Stele con un testo inciso in tre lingue, geroglifici egiziani, greco e demotico, un antico egizio usato proprio nel Delta che ha permesso all’egittologo francese Jean-François Champollion di decifrare i geroglifici egiziani. Poi Alessandria si riprese il posto che le spettava e Rashid ripiombò nel suo secolare torpore da sonnolenta provincia egiziana, con i suoi vicoli polverosi dove oggi solo pochi palazzi di mercanti mangiati dal tempo ricordano i tempi d’oro.

Sbucano quasi tutti sulla luce accecante del lungofiume dove ormai attraccano solo rari pescherecci e piccoli traghetti che attraversano il Nilo prima che si perda nel Mediterraneo. Dopo un viaggio di oltre 6680 chilometri iniziato sugli altipiani africani e finito in questo mondo di terra e acqua.