Asperiores, tenetur, blanditiis, quaerat odit ex exercitationem pariatur quibusdam veritatis quisquam laboriosam esse beatae hic perferendis velit deserunt soluta iste repellendus officia in neque veniam debitis placeat quo unde reprehenderit eum facilis vitae. Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipisicing elit. Nihil, reprehenderit!
Abraham vs Bansky
Il confronto con Banksy è d’obbligo: «Io rendo omaggio a Bansky perché ha aperto a tutti noi delle porte e ha dato contenuto pertinente, stilisticamente riconoscibile e di portata popolare alla street art in modo semplice, efficace e a volte anche divertente; poi, che le sue opere siano diventate super costose è un altro problema».
Eppure vi è una differenza sostanziale tra i due artisti: Bansky si nasconde pur non facendo davvero dell’illecito, mentre Abraham ci mette la faccia pur sfidando «la legge» in presa diretta, sebbene la sticker art sia meno invasiva rispetto a graffiti e stencil permanenti, data la facile rimozione degli adesivi stessi che permettono di mantenere forse meglio il fragile equilibrio tra arte e rispetto della legge: «Il fatto che Bansky si nasconda è molto legato alla parte commerciale; anche se inizialmente magari ci è cascato un po’ per sbaglio, in modo innocente: non penso sia stato un calcolo sin dall’inizio».
Di fatto, all’epoca dei suoi esordi, si parla dei primi anni Novanta, si veniva presi per vandali, per cui molti, se non tutti, agivano nell’anonimato… «però poi, nel suo caso – precisa l’artista bretone – è diventato un meccanismo commerciale e, secondo me, è sbagliato perché chi si nasconde in un qualche modo riconosce di fare del male, di fare un torto, di fare qualcosa di sbagliato; se tu sei nel giusto non ti nascondi e basta. Ed è per questo che io ci metto la faccia; non mi piace chi si nasconde. Il loro è solo un modo per fare quelli che stanno sempre un po’ sul filo dell’espressione visiva illegale o semi-legale, per fingersi coraggiosi: questo atteggiamento impedisce di perseguire nella battaglia vera che è quella di rivendicare la libertà di fare arte».
Libertà che si è presa la società ticinese GCevents, organizzando questa estate, negli spazi del Rialto di Muralto, l’esposizione Banksy – Underground / An unauthorized exhibition (chiuderà fra pochi giorni, il 29 settembre, ma vale in ogni caso la pena ricordarla per il tema legato alla libertà dell’arte da realizzare e fruire, oggetto del nostro servizio). La mostra ricrea l’ambiente suburbano della metropolitana di Londra con repliche e installazioni ideate senza il coinvolgimento diretto di Banksy. Così facendo, il percorso espositivo ideato alla luce del sole – grazie proprio alla sua natura non del tutto «legale» essendo «non autorizzata» – potrebbe inserirsi nello stesso filone della street art, al pari delle opere di Bansky.
D’altro canto: «Esistono tante mostre su Banksy in tutto il mondo e molte di esse non sono autorizzate. Alcune esposizioni sono organizzate da collezionisti privati che hanno acquisito opere dell’artista, oppure si basano su riproduzioni (come nel nostro caso), senza che Banksy abbia un coinvolgimento diretto», spiegano gli organizzatori: «Il suo approccio anticonvenzionale all’arte rifiuta le logiche del mercato artistico tradizionale. Le sue opere di street art sono spesso pensate per essere accessibili al pubblico in modo gratuito (ndr: mentre per vedere le opere di Locarno occorre pagare il biglietto d’entrata). Le mostre di Banksy sono spesso “unauthorized” perché l’artista non approva ufficialmente l’esposizione o la vendita delle sue opere al di fuori del contesto da lui scelto».
Dove e quando
Banksy – Underground / An unauthorized exhibition; al Rialto di Muralto. Fino al 29 settembre 2024. Orari: me-ve: 13.00-19.00 (ultimo ingresso ore 18.00); sa, do e festivi: 10.00-20.00 (ultimo ingresso ore 19.00); lu e ma: chiuso. www.banksylocarno.ch
L’utopistica sovranità dell’arte
L’artista bretone Clet Abraham, noto per il suo «passo libero», scultura abusiva situata a Firenze, sfida la legge intervenendo sui cartelli stradali
Manuela Mazzi
Prende categoricamente le distanze dalla sticker art, pur avvalendosi delle decalcomanie come espressione artistica, e si riterrà soddisfatto solo quando il suo armare di satira sovversiva la cartellonistica stradale di tutto il mondo sarà accolto senza ostruzionismi. Il suo nome è Clet Abraham. Bretone di origine, vive a Firenze dove si trova anche il suo studio.
Proprio quest’anno ha fatto molto parlare di sé, in Italia, dopo aver invaso Milano con le sue opere. Da qui il dubbio che avrebbe potuto essere stato lui a firmare anche il cartello che si trova in Vallemaggia, all’altezza di Ponte Brolla. Chi è del Locarnese, lo avrà certamente notato in questa calda estate mentre si recava all’Orrido: contro montagna, un segnale di «strada principale» ospita una donna dalle forme morbide che vi penzola all’interno. Forse, fin troppo sinuosa: «Il mio lavoro – spiega Clet Abraham – è molto più sintetizzato rispetto al cartello della Vallemaggia che mi ha mostrato. È una regola intellettuale che mi sono imposto per assecondare lo stile dei cartelli adattandomi alla sintesi estrema del loro linguaggio visivo. Curare i dettagli in questo caso non significa aumentare i “dettagli” nell’immagine. Quel corpo femminile, io lo avrei schematizzato molto di più. Avrei eliminato alcune forme per poter avere un maggior impatto e permetterne una lettura più immediata anche da lontano, esattamente nello spirito dei cartelli stradali».
Chi ha lavorato sul cartello locale è dunque un emulo, peraltro isolato. La sticker art, che appartiene alla generica sottocultura urbana nota come street art, è spesso definita sticker bombing, per l’uso indiscriminato di adesivi con slogan o loghi che tempestano le città (anche in Ticino, forse in modo più moderato): molto diversa è la sticker art che pratica Clet Abraham, il quale lavora con questo materiale già dal 2010: «In generale cerco di rispettare gli altri. Ma “loro” mettono gli adesivi ovunque, mentre io prendo ispirazione dal contesto. Chi fa sticker art tendenzialmente impone una sua réclame con immagini spesso identiche. Certo, anche io ripeto alcune opere, ma le distanzio l’una dall’altra e, se possibile, evito di installarne due uguali nella stessa città. A me interessa creare un dialogo con l’oggetto stesso, e poi con il luogo e non da ultimo con la gente. Non piazzo – senza relazionarmi con il contesto – il medesimo adesivo a caso su pali, vetrine, pattumiere…» e sculture, aggiungiamo noi.
Così facendo, l’artista ingloba nella sua opera l’oggetto che usa come uno strumento: «Ho scelto lo sticker solo perché normalmente il cartello stradale è un pezzo di metallo su cui si fissa una decalcomania, per cui mi permette di rimanere in perfetta e totale armonia con l’oggetto da me utilizzato, ma è una conseguenza, non una scelta a priori. Per questo motivo prendo distanza dalla sticker art: e poi non mi piace essere etichettato, e non credo che sia così significativo il mezzo utilizzato». Mezzo di cui lui reinterpreta il significato in modo a volte creativo altre volte provocatorio.
Oltre al contesto in cui si trovano e con il quale dialogano, le opere di Clet Abraham si distinguono sia da un punto di vista stilistico, il segno in sé, sia dal punto di vista contenutistico: «Sì, lavoro molto sul contenuto, nel senso che mi piace sfruttare il senso stesso del cartello per poi surfare sul suo significato». E lo fa creando opere dal carattere e dalla poetica riconoscibili, la cui espressione è un impasto di più elementi – tratto e spirito, mescolati a un certo umorismo sarcastico, spesso con una sfumatura romantica – che danno vita ad agenti della polizia che abbracciano l’asta del divieto, frecce unidirezionali che trafiggono cuori, indicazioni delle strisce pedonali che ospitano le tre espressioni dell’evoluzione secondo l’artista, ovvero la scimmia, l’uomo e il robot, e via elencando: «L’arte può essere umoristica ed essere comunque importante, e lo è quando l’umorismo non è fine a sé stesso. Ad ogni modo, penso di essere uno dei pochi che lavora con il disegno a mano e non con il computer: i miei principali strumenti sono la matita e la gomma» e probabilmente anche le righe, le squadre e i goniometri a giudicare la nettezza delle linee. «Io non tocco mai tastiera e mouse; dopo aver fatto il disegno, lo passo alla grafica che lo trasferisce su computer. Secondo me, chi ha un po’ di sensibilità, riconosce il tratto fatto a mano».
Tratto distinguibile, che risponde a un’esigenza comunicativa precisa. È infatti una questione di codici e di semiotica, per quel che riguarda il segno (in quanto significante), dato che il contenuto si fa forza proprio dall’espressione data dalla forma: «Per creare i personaggi che inserisco nei cartelli – spiega l’artista – cioè, per dare loro una posizione identificabile e chiara – un po’ come nell’arte egiziana dei geroglifici – lavoro per adattarli al linguaggio comprensibile e codificato della cartellonistica, calcolando ogni tipo di posizione al millimetro; c’è tantissimo studio dietro, ore e ore di disegno: sono molto esigente, faccio magari mille disegni ma poi ne scelgo uno solo. Essendo molto selettivo ne pubblico forse uno al mese, circa una dozzina all’anno con qualche scultura nel mezzo».
Clet Abraham usa infatti anche altre forme espressive: «A dipendenza del contesto modifico il mezzo». Tra le opere più chiacchierate e oggetto di denunce legali va di certo menzionato L’uomo comune esposto sullo sperone del ponte alle Grazie sull’Arno: «Sì, la scultura di Firenze alla fine ha subito un processo penale, ma io sono stato assolto perché non vi era nessun appiglio legale che potesse costringermi a togliere l’opera che adesso è lì da più di due anni». Un mezzo diverso per esprimere il medesimo principio concettuale usato coinvolgendo i cartelli: «È così: la statua che cammina nel vuoto, in verità, fa un “passo libero” per rivendicare il suo diritto di libertà. Non ho mai chiesto l’autorizzazione per posare questa scultura, e non farlo è stata una scelta: se volevo rivendicare il diritto dell’uomo di fare un passo libero, non potevo chiedere il permesso, altrimenti non sarebbe più stato libero. La mancanza di autorizzazione è una necessità intrinseca dell’opera stessa».
Non è stato facile comunque vincere la causa: «Per riuscirci mi sono appoggiato alla Costituzione italiana che dice che l’arte è libera. Da qui anche la libertà di lavorare sui cartelli che mi prendo senza chiedere il permesso, perché, secondo me, il “fluido creativo” ha bisogno di questa libertà, che in alcuni luoghi la legge peraltro garantisce, almeno in Italia; e pure in Francia, dove non è inserita nella Costituzione, ma dove pure esiste una legge che garantisce la libertà di creazione artistica».
In fondo, è questo il vero messaggio che l’artista bretone sta cercando di fare arrivare dato che interviene principalmente sui divieti e di conseguenza anche sulle imposizioni, essendo l’altra faccia degli obblighi preposti: «“Un passo libero” è la rivendicazione della libertà dell’arte nella società, che ha bisogno di essere libera, e lo dice appunto anche la legge, solo che poi non viene applicata a causa dell’ossessione del controllo da parte del potere, che, come una piovra, vuole mettere le mani dappertutto. Da qui la mia battaglia che spero di vincere legalmente per potere dare poi spazio e possibilità a tutti gli artisti di esprimersi senza limiti». Una conquista che potrebbe porre fine a questa “lotta culturale” già durata 14 anni: «Ho un certo spirito e quindi se questa cosa verrà accettata, io me ne inventerò un’altra. Magari continuerò a lavorare sui cartelli ma in modo diverso. Un po’ per essere parte della società, per essere accettato davvero – sono molto sensibile al tema della partecipazione alla vita sociale e non voglio essere considerato un antisociale come la giustizia sta cercando di dimostrare – ma anche perché mi permetterebbe di passare a qualcosa d’altro, di crescere; fin che vengo di continuo bloccato non posso crescere, resto solo lì a battermi contro i muri e la stupidità burocratica, ed è un peccato per tutti».
Libertà anche nel fruire l’arte… «Nella street art, non c’è una cornice di protezione, dove un cartello indica che questo è arte, stabilendo così che il resto non lo è. Nel contesto urbano, il giudizio spetta al passante, è lui che decide se è arte o non è arte, o perlomeno è il passante a poter essere stimolato nel fare una riflessione su che cosa sia l’arte, senza dover pagare un biglietto, senza dover fare lo sforzo di andare in un museo; c’è tanta gente che non ci andrà mai in un museo, ed è questa gente che ha più bisogno di confrontarsi con la cultura».
Restando in tema di libertà, Clet Abraham non sembra volersi porre confini: «Ho lavorato dappertutto, ho girato il mondo, in America, in Palestina, in Taiwan… pure in Giappone, sebbene non fu per nulla una bella esperienza: si rifecero sulla mia compagna arrestandola, ma non voglio parlarne. Ho invece lavorato anche in Svizzera: in verità le mie opere sono state levate molto velocemente; sono stato a Basilea e sul confine con la Francia, vicino a Montreux. In Ticino non sono mai stato, ma ci verrei volentieri…». E noi lo aspettiamo, pur sapendo che di certo non mancheranno sanzioni e multe, sebbene – come in Italia anche in Svizzera – la Costituzione renda l’arte sovrana: Art. 21 «Libertà artistica – La libertà dell’arte è garantita». Il punto, ovviamente, è sempre distinguere gli interventi artistici da quelli vandalici.
Nel resto dell’Europa, invece, esistono diversi artisti che lavorano sui cartelli: un collettivo di Madrid, un ragazzo svizzero di origine bretone, e altri ancora, ma Clet Abraham è forse l’artista che spicca maggiormente.
«Potreste aver creato una nuova corrente artistica…?» gli chiediamo; «Lo spero».