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Enrico Cano, casa progettata da Mario Botta, Breganzona, 1990 (Enrico Cano)


Enrico Cano, tra architettura e natura

Ha collaborato con Botta e Piano, il suo rapporto con l’edificio è improntato alla lentezza e alla meditazione
/ 23/09/2024
Stefano Spinelli

Sotto le accoglienti fronde di un maestoso cedro del parco di Villa Argentina – nei pressi di Palazzo Canavée, il nuovo edificio dell’Accademia di Mendrisio – incontriamo, non per caso, Enrico Cano, reputato fotografo d’architettura e grande appassionato di natura.

Il luogo è dunque doppiamente propizio per intessere una piacevole conversazione riguardo alle ragioni e alla passione che lo hanno portato, più di quarant’anni fa, verso la fotografia, e che tuttora lo nutrono.

Come già in altre occasioni abbiamo avuto modo di osservare, rintracciamo spesso in ambito familiare gli impulsi che daranno poi vita, in certa progenitura, a una fatale attrazione per la fotografia. Ed è quanto successo anche con Enrico. Che, giovanissimo, troviamo in piena natura già intento ad armeggiare col suo primo apparecchio fotografico, una piccola Kodak Instamatic a cartucce, accanto a suo padre, grande appassionato di fotografia e felice utilizzatore di una mitica Rolleiflex biottica: «La fotografia mi ha affascinato fin da subito. Ho ancora una foto fatta in montagna, avevo forse nove anni, con i ghiacci, il riflesso del sole. Ero orgogliosissimo di quell’immagine. Mi ricordo che mi aveva affascinato un mondo».

All’età di 17 anni, Enrico, coi primi soldi guadagnati con dei lavoretti, si compra la sua prima reflex. Il cammino è segnato, ma al momento di dover scegliere quale formazione intraprendere, pensando che vivere di fotografia non potesse essere altro che un sogno, decide di assecondare l’altra sua passione, quella per l’ambiente, la natura, e si iscrive a geologia. Studi che però, dopo un anno e un solo esame dato, abbandonerà per iscriversi, spalleggiato dal padre, allo IED di Milano – Istituto Europeo di Design –, giovane ma già reputata scuola che formava anche fotografi. E dove si diplomerà tre anni dopo. Siamo sul finire degli anni Ottanta.

Si tratta allora di darsi una specializzazione. Al pensiero di passare giornate intere chiuso in uno studio a fotografare, amando lui gli spazi aperti, si trova a dover scegliere tra la fotografia di natura e quella di architettura. La prima opzione avrebbe richiesto sforzi economici non indifferenti per avviare l’attività e cominciare a farsi conoscere. Non potendoselo permettere, propende per l’architettura, più a portata di mano. «L’idea di fare, come alcuni fotografi, tutto il mio lavoro in studio, ho capito fin da subito che non era fatto per me. E quindi, l’architettura, da quel punto di vista, mi era congeniale».

Nel ’90 apre il suo studio. I primi anni sono difficili. «Agli inizi non era facile, però ho tenuto duro, e quello che mi ha salvato, che mi ha solidificato, è stata la passione, la determinazione». Oltre ai lavori di architettura che riesce a ottenere, deve realizzare altra fotografia, still life, fotografie di design, collaborare con altri studi e colleghi. Prendere nel limite quel che arriva. Sul mercato si propone col banco ottico perché, come ci dice, l’uso di un banco ottico a quel tempo faceva la differenza tra il professionista e il dilettante, ne rappresentava la certificazione. Oggi, col digitale, molto è cambiato…

Subito dopo gli studi, va annotato, si dedica in parte pure all’insegnamento, all’Istituto tecnico superiore di Como, al Politecnico di Milano, per infine collaborare – sotto varie vesti – anche con l’Accademia di Mendrisio. Per Enrico, questi con gli studenti, sono momenti assolutamente formativi e vivificanti, a cui non vuole rinunciare anche se ovvi motivi di lavoro lo obbligano a limitarli.

Ma torniamo alla sua attività, quella più esistenziale, di fotografo. Per trovare committenti, ai suoi inizi bussa e ribussa a tanti usci d’architetti. La fortuna gli apre la porta dello studio di Mario Botta – archistar e nostro orgoglio locale. Enrico gli si presenta con una serie di fotografie fatte di propria sponte a una sua villa edificata a Breganzona. Ne nascerà una lunga e fruttuosa collaborazione, tuttora attiva e contraddistinta da reciproca soddisfazione. Per Enrico, Mario Botta rappresenta in qualche modo un mentore, per i vari consigli e osservazioni dispensati nel corso dei loro molteplici incontri di lavoro.

Allaccerà nel tempo altre relazioni di lavoro con noti architetti, locali e internazionali. Una tra queste, prestigiosa e continuativa come quella con Botta, la stabilisce con Renzo Piano, di cui documenta vari importanti progetti (andate a visitare il suo ricco sito www.enricocano.com, nel quale potrete riscontrare l’ampiezza del suo lavoro e le mostre da lui realizzate, aspetto quest’ultimo che non avremo purtroppo modo di esaminare in quest’articolo).

La fotografia d’architettura richiede molta metodicità, pazienza e accuratezza, qualità che non mancano a Enrico. A dipendenza della complessità del lavoro che va ad affrontare, può passare anche parecchi giorni a fotografare, girando attorno a un edificio, valutandone le caratteristiche – i volumi, l’interazione con la luce, come questo rapporto varia per quel singolo oggetto nel susseguirsi delle ore della giornata – cogliendone, così, momenti irripetibili. Dando tutto di sé.

Gli piace questo rapporto con l’edificio, improntato alla lentezza e alla meditazione: gli concede il tempo per coglierne a fondo il volto, il lato giusto, per capire come riprenderlo nel modo che meglio esalti le sue peculiarità. La lentezza, per la complessa manipolazione che richiedeva, era anche ciò che caratterizzava l’uso del banco ottico. Il digitale, Enrico lo adotta definitivamente solo una decina d’anni fa, quando gli apparecchi Hasselblad, di cui fa oggi uso, hanno ormai raggiunto la capacità di fornire immagini di qualità paragonabile a quella delle lastre realizzate col banco ottico.

Rimane un po’ di nostalgia per come si lavorava in precedenza, ma questo non toglie valore alle possibilità oggi a disposizione. «È vero», confessa, «col digitale si passa purtroppo molto tempo davanti al computer. Ma il lavoro viene semplificato». Ad esempio, facilita le riprese in notturna, permette di scattare di più e più velocemente e, volendo, di introdurre nelle immagini di architettura sprazzi di vita che rendono unico lo scatto – cosa che con la pellicola si tendeva semmai ad evitare. L’approccio mentale a proposito dei cambiamenti in atto è sicuramente positivo: «Forse, noi, come generazione [ndr, di nativi pre-digitali], abbiamo una fortuna, tra le tante. È di aver fatto un percorso. E questo è anche bello, perché in un lavoro è affascinante anche il fatto che si trasformi».

Oltre alla ricerca della Bellezza, scopo del suo lavoro Enrico lo trova nel rendere felice il committente, oltre sé stesso: «Perché devo essere felice anch’io. Sembra strano, no? Però quando fai un lavoro con passione, innanzitutto devi soddisfare la tua passione, poi devi sapere che devi soddisfare il cliente, e quando hai chiuso questa cosa… tiri un bel respiro e dici: che bello, anche questa cosa è fatta. È importante!». Anche dopo anni e anni d’esperienza, ci racconta, quella del fotografo di architettura resta un’attività che lo affascina, non lo annoia mai, è entrata a far parte integrante del suo stesso vivere. Come avviene osservando la natura – alla quale, tra l’altro, bene o male che sia, la fotografia d’architettura è particolarmente soggetta, fosse anche solo per via degli eventi atmosferici a cui per forza ci si deve adattare –, questo lavoro riesce sempre a sorprenderlo, a confrontarlo ogni volta con sfide diverse da cui, con spirito aperto e forza di volontà, uscirne rinnovati.