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John Belushi, il dimenticato Ospite d’America
Vite da ridere (o quasi): negli anni Ottanta «fratello Joliet» era il volto più popolare d’America. Il processo di demolizione di cui è stato oggetto dopo la sua morte, oggi lo ha fatto (pressoché) dimenticare
Carlo Amatetti
«Belushi chi? Ah, Jim, quello de La vita secondo Jim! Bella serie. No? John? Ah, sì, il drogato con gli occhiali da sole…». Questo, in sintesi, è il posto che occupa il (fu) mitico John Belushi, alias Joliet Blues, alias Bluto, nella memoria collettiva: il fratello drogato di un popolare attore di sitcom. Come siamo arrivati a tutto questo? Ma soprattutto, chi è stato invece John Belushi? Per dare un’idea dell’enormità del «fenomeno John Belushi» possono bastare tre dati: nel 1979 in America, all’età di soli 30 anni era contemporaneamente il volto della commedia più vista nella storia del Paese (il Bluto di Animal House), quello della trasmissione televisiva più vista e più cool del momento (il Saturday Night Live) e quello dell’album musicale più venduto, il primo dei Blues Brothers, ovvero John Belushi in coppia con Dan Aykroyd. Quali sono allora le ragioni per cui il suo ricordo si è disperso così repentinamente?
Non siamo lontani dal vero se riconduciamo il tutto al puritanesimo dell’America, tanto vivo oggi come ieri, e al nome di un «colpevole», nientemeno che il premio Pulitzer Bob Woodward, assurto a fama mondiale per aver firmato gli articoli sul Watergate insieme a Carl Bernstein, che portarono alle dimissioni del presidente americano Richard Nixon. Cosa c’entra il vecchio Bob? Ebbene il campione della stampa liberal d’America – anch’egli di Wheaton, Illinois, come Belushi – era stato chiamato proprio dalla vedova di John (che purtroppo ci ha lasciati questa estate dopo una lunga malattia), per provare a contrastare il mare di fango generato dai numerosi articoli della stampa americana usciti immediatamente dopo la morte di John per overdose avvenuta il 5 marzo 1982. Judith chiese al compaesano Woodward di scrivere una serie di articoli che, senza nascondere alcunché, potessero però non trascurare l’aspetto più importante, ovvero che John era stato un grande artista e una persona difficile, ma estremamente buona e generosa. Quando Woodward le comunicò non solo che, anziché una serie di articoli, avrebbe scritto un libro, ma anche che il titolo sarebbe stato Wired («Fatto»), Judith comprese che era stata completamente tradita. Come lo furono, a loro detta, tantissimi amici di John che si aprirono con il grande giornalista solo per ritrovare i loro ricordi travisati nelle pagine di quella che rimase per decenni l’unica biografia scritta su John. Ovvio, pertanto, che se un tale nume tutelare della stampa liberal realizza un ritratto approfondito di chicchessia, il lettore tende a ritenerlo attendibile. Grazie a Woodward, pertanto, di John non rimase che il ricordo di un celebre drogato morto di overdose.
Il grande giornalista investigativo, però, non aveva assolutamente inquadrato né l’uomo né tantomeno l’artista Belushi, che, invece, Judith, molti anni dopo, ci ha restituito nei suoi libri, raccogliendo anche le testimonianze di tutti coloro che lo avevano conosciuto, come quella del suo fratello di sangue Dan Aykroyd: «Per John, la lealtà e il legame che lo univa ai suoi amici erano la cosa più importante. Non gli importava affatto dei soldi, e infatti non aveva mai più di una manciata di banconote spiegazzate in tasca; non portava mai con sé un portafoglio e nemmeno un documento di identità, perché non gli servivano: bastava la sua parola. […] Per guadagnarsi la sua amicizia, che era straordinaria una volta che lo avevi conquistato, John doveva innanzitutto rispettarti: per questo, dovevi possedere un talento o un’abilità per i quali lui provasse affinità, oppure dovevi fargli sentire di essere una persona autentica e generosa».
Nelle pagine di Woodward, la grande umanità e l’immenso talento di John cedono il passo alla pruriginosa cronaca della sua discesa all’inferno, trascurando del tutto il contesto e il fatto che negli anni Settanta la cocaina – di cui si ignorava praticamente tutto: non si credeva né che potesse portare alla dipendenza, né tantomeno alla morte – era il simbolo culturale più rappresentativo della California del Sud e dello showbusiness, a tal punto che la droga veniva distribuita anche sui set, come le brioche e il succo d’arancia. Il fatto che a quei tempi fosse morto Belushi e non una qualunque altra star era da ascriversi solo al caso. Si può anche dire di più: il suo involontario sacrificio, paradossalmente, aiutò a salvare molte vite («Se anche un superuomo come Belushi è morto, allora potrei morire anch’io!»), come quelle dei suoi compagni di bagordi, da Robin Williams a Richard Pryor, come ebbero a dichiarare loro stessi.
Per «spiegare» John, invece, dobbiamo tornare alla sua generosità come uomo, una generosità che ha sempre riversato nel suo lavoro e che, grazie a un talento e a un carisma senza pari, hanno fatto sì che quando morì, giovanissimo, era già l’attore comico più famoso del mondo. Se la sua popolarità negli USA, grazie alla TV, è in qualche modo comprensibile, quella all’estero dipendeva solo dalla sua carriera cinematografica. Ebbene, al momento della sua morte, questa comprende solo sette film, di cui solo due da co-protagonista a fianco di Dan Aykroyd (The Blues Brothers, I vicini di casa) e uno solo da protagonista assoluto (Chiamami aquila, quello che lui amò di più e il pubblico di meno, secondo solo a I vicini di casa). In tutti gli altri casi la sua partecipazione fu spesso poco più che un cameo, ma tale era la sua personalità che il film diventava davvero un «suo» film a prescindere dal minutaggio concesso al suo personaggio.
In quest’ottica, particolarmente significativo è il suo personaggio Bluto in Animal House, come ricordò John Landis: «Tutta la trama del film è incentrata su Tom Hulce e Stephen Furst che interpretano Pinto e Sogliola. Sono loro che reggono la storia, ma John è il personaggio che tutti ricordano. Il copione non prevedeva che Bluto bucasse lo schermo. Fu John a farlo». E lo fece, a mio parere, non solo perché la sceneggiatura gli offriva delle uscite grandiose, rese ancora più grandiose dal suo carisma, ma perché forse Bluto «era John». Non nel senso che anche Belushi andava in giro in toga o a spaccare chitarre, ma perché Bluto era, come John, un grande amico, una persona «giusta con i giusti» ed era una forza della natura.
Una forza a cui nessuno riusciva a dire di no, tanto che fu oggetto nientemeno che di uno sketch del Saturday Night Live, La cosa che non voleva andarsene: «La cosa che non voleva andarsene – ricordò una delle autrici dello show, Anne Beats – era John. Si presentava all’improvviso in casa tua, ti svuotava il frigorifero, faceva telefonate interurbane, e così via». Incursioni che John faceva anche nelle case di estranei, come testimoniò esterrefatto ancora Dan Aykroyd: «Poteva entrare nelle case di persone completamente estranee, […] andare in cucina, aprire il frigorifero, prendersi un sandwich, accendere la TV e mettersi a dormire sul divano, mentre i fortunati padroni di casa osservavano, sorpresi e deliziati. Una volta gli dissi, e gli piacque molto, che lui era l’Ospite d’America».