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Dove e quando
Le immagini della serie in-Visibilia saranno in mostra presso la Fondazione Ghisla Art di Locarno dal 7 settembre 2024 al 5 gennaio 2025.
Katja Snozzi, fotoreporter e non solo
Primi piani: da grande esploratrice del mondo intero, negli ultimi anni la fotografa di Verscio si è dedicata ai volti della gente
Stefano Spinelli
Seduti tra il verde di una fresca terrazza affacciata sui tetti di Locarno, dopo un buon espresso e qualche scambio di vedute, Katja Snozzi, fotografa di affermata esperienza, ci racconta il suo lungo percorso professionale di oltre cinquant’anni di attività, in buona parte impiegati a viaggiare per il mondo e fotografare per conto di pubblicazioni e di organizzazioni umanitarie. Un bisogno di muoversi e conoscere altre realtà che affonda probabilmente le sue radici nei primi anni della sua vita: nata a Locarno, Katja Snozzi trascorre poi l’infanzia e l’adolescenza tra Kenya, Svizzera tedesca e Ticino. In questo contesto, la fotografia, come traccia di esperienze vissute, è già pratica comune dei suoi genitori, per cui, quando se ne presenta il momento, la scelta della formazione professionale da seguire viene spontanea.
Scelta anche dettata dalla sua natura solitaria, dall’amore per l’arte e dall’avversione per i lavori in spazi costretti: «Cercavo un’attività che non implicasse il dover lavorare in team. Amavo star sola, nel senso che volevo fare le mie cose, e di certo sapevo che non volevo passare la mia vita in un ufficio». Così s’iscrive in quella che oggi è l’Università delle arti di Zurigo, per poi acquisire il diploma federale in fotografia.
L’incontro con il fotogiornalismo nasce invece per uno strano caso. Dopo la pubblicazione in Austria di un suo libro, Zwischen Flut und Ebbe (1978), Katja viene contattata dall’editore di una rivista viennese di politica e cultura: «Mi chiese se avessi già fatto dei reportage. Alla mia risposta negativa, mi propose comunque di accompagnarlo in Libano dove lui doveva fare un’intervista ad Arafat. Ma sì, mi sono detta, perché no? Probabilmente il virus [del reportage] l’ho preso lì». Benché quell’esperienza non è priva di momenti difficili, per non dire traumatici – «C’era la guerra: vidi il primo morto ammazzato; ero completamente scioccata. Al mio ritorno me la giurai da sola: non avrei mai più fatto una cosa così!» – Katja Snozzi coglie molte altre occasioni, dando così il via al suo percorso pluridecennale di fotogiornalista.
Per diverse testate copre situazioni di crisi, conflitti o disastri di varia natura: guerre, carestie, terremoti, alluvioni… Viaggia tra il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia e il Sud America. Sente il dovere di documentare queste realtà per rendere attenti, chi non le vive, di quanto accade: «Ero convinta, ed è quello che mi ha sempre spinta a perseverare, che quello che facevo serviva a qualcosa. A differenza di quanto succedeva allora con i servizi televisivi – di un minuto o poco più, troppo veloci per lasciarti qualcosa – la fotografia, se tu la guardi un minuto, ti rimane dentro. E poi, io volevo far vedere quello che sta dietro alla guerra, con la gente comune, con le donne e i bambini». Si rende presto conto che il fatto di esser donna – tra le pochissime allora sul campo – le porta vantaggio, perché le donne godevano la fiducia di altre donne per cui, più facilmente, oltre a raccontarsi, si lasciavano fotografare.
Erano i tempi in cui i giornali dedicavano ancora molto spazio alla fotografia. I servizi fotografici prendevano forma di documentari, occupavano diverse pagine, le foto venivano stampate anche in grandi dimensioni, perfino su doppie pagine. Si lavorava con la pellicola e non si aveva, come oggi, la possibilità di verificare subito sul display della macchina quello che si era fatto, ma bisognava aspettare di poter sviluppare i rullini prima di sapere com’era andata, magari solo al rientro dal reportage. Parrebbe uno svantaggio, in realtà, ci dice, questo faceva sì che il fotografo fosse più concentrato su quanto faceva e istintivamente, grazie anche all’esperienza, sentisse quando aveva colto l’immagine giusta. Proprio per questo, Snozzi, quando cominciò a utilizzare macchine digitali per il suo lavoro, restava infastidita dal vedere sempre sul display l’immagine scattata, al punto tale da coprire lo schermetto con uno scotch nero.
Diversamente da oggi – dove la possibilità di ampi interventi in post-produzione infragilisce il valore testimoniale dell’immagine fotografica – con la pellicola, ed è ciò che apprezza Katja, la realtà viene riportata uno a uno, ossia per quello che è. Questo, anche quando è in bianco e nero, com’è il caso per la gran parte del suo lavoro. Anzi, il b/n spesso avvicina l’immagine ancor più all’essenza del soggetto fotografato.
Oggi, con gli avvenuti cambiamenti tecnologici, il lavoro di reporter rappresenta un lusso. Un’infinità d’immagini ci arriva costantemente via internet in tempo – quasi – reale. Sono così tante da passarci via lasciando poche tracce. Ma non solo. Il passaggio al digitale, oltre a produrre un eccesso di effimere foto, fa sì che tutto il procedere sia estremamente compresso e si perda, per il fotografo, la dimensione fattuale e la lentezza che l’accompagna: «Col rullino avevi bisogno anche di pazienza, la pazienza prima di scattare, perché avevi una quantità limitata di film, la pazienza di sviluppare e stampare le immagini. Era tutto un processo, d’ordine artigianale, quasi sensuale. Oggi non fai più niente. Guardi e, puff, è fatto». Forse anche questa è una delle ragioni per cui lo sguardo di Katja a un certo punto – siamo arrivati nel nuovo millennio – si è rivolto verso altre realtà.
Da Berna, dove ha risieduto per oltre tre decenni – lavorando anche per un paio d’anni accreditata, come prima donna fotografa, a Palazzo federale –, Snozzi rientra in Ticino, rifugiandosi a Verscio, proprio nel momento in cui si stavano aggregando i comuni delle Terre di Pedemonte. Realizza allora, siamo nel 2012, una serie di ritratti di cittadini del Comune nascente, pensando a come questo progetto possa suggerire loro un sentimento di appartenenza alla nuova comunità. Sono cento ritratti in bianco e nero, pubblicati nel libro Gente delle Terre di Pedemonte (e varie altre sono le pubblicazioni che ha editato del suo vasto lavoro, in parte fruibile anche nel sito katjasnozzi.ch). Tutte le persone ritratte sono di età diversa, in modo da coprire con i loro volti un secolo della storia di questa terra.
Nel realizzare questa serie, Katja Snozzi riscontra quanto belli e forti siano i visi delle persone anziane: «Terminato il lavoro, mi ricordo di aver pensato: più sono anziani, più belli sono. Poche storie, sono dei volti bellissimi». Crea così il progetto di ritratti a centenari, ponendosi di fotografarne cento come traguardo. Grazie a degli aiuti istituzionali, Snozzi arriva a trovarli e a fotografarli realizzando una splendida serie, anche questa pubblicata (Anime centenni, 2016 ) e poi esposta al Museo Vela di Ligornetto con stampe di grande formato.
Vicissitudini della vita e il periodo di chiusura legato alla pandemia deviano il suo lavoro fotografico, portandola piuttosto verso una dimensione introspettiva. Sarà proprio da questa condizione, allorché ritrova un rapporto più saldo col mondo – un mondo che ridiventa a colori – che prende avvio una nuova serie, in-Visibilia, ancora in lavorazione, composta da miniature che, come il titolo suggerisce, ci rendono partecipi di uno sguardo volto a quella parte di realtà che, pur stando quotidianamente sotto ai nostri occhi, distratti, non cogliamo.
Come ci suggerisce la fotografa, sono immagini che hanno a che fare con la solitudine, figlie di un tempo libero e ozioso nel quale potersi perdere con lo sguardo, lasciandolo galleggiare tra il vedere e il non vedere – tra assenza e presenza – fino a cogliere, all’improvviso, un’immagine. Astrazioni/estrazioni di realtà, dai colori soffusi. Pura fotografia, frutto di un procedere che, a mio avviso, simile a certa disciplina di tiro con l’arco, avvicina quest’arte alla pratica dello zen.