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Attraverso le foreste primordiali dello Sri Lanka
Sul bus 48, dalla stazione di Colombo brulicante di cingalesi anglofoni alle antiche grotte buddiste di Dambulla
Clara Valenzani, testo e foto
Ganesh, sul cruscotto, è avvolto da evanescenti spirali bianche che salgono irregolari; il profumo solletica il naso. La statua emerge da un tripudio di banane votive, e ha delle ghirlande di fiori intorno al collo, che ogni tanto gocciolano, creando invisibili macchioline sul pavimento del bus rivestito a festa, gli interni decorati con plastiche pacchiane e colori sgargianti. È il numero quarantotto. Non quello con la svastica sul finestrino, ma quello parcheggiato dietro.
Di viaggiatrici solitarie nell’«isola risplendente», questo il significato di «Sri Lanka», ce ne sono parecchie. Si muovono in autobus e treni (come quello celebre che divide il Paese in due, e attraversa foreste primordiali e piantagioni ottocentesche di tè nel tragitto da Kandy a Ella), fronteggiando le solite difficoltà dei Paesi asiatici e condividendo le consuete perplessità: i tempi rilassati, la speranza che le indicazioni lette e impossibili da verificare sui siti online siano corrette, i collegamenti alla buona. L’unica eccezione, qui, è la lingua: per una volta, lo spaesato occidentale può rimanere più o meno tranquillo, confidando sull’eredità linguistica lasciata dai coloni britannici succeduti a quelli olandesi e a quelli portoghesi ancora prima. Per questo, anche grazie al fatto che ci siamo preparati bene, individuiamo subito il bus per Dambulla. Basta chiedere informazioni ai cingalesi che si aggirano nella stazione tra i banchetti già sfrigolanti di cibo e i venditori ambulanti che promuovono mandarini a gran voce.
Insperatamente puntuale, il quarantotto parte da Colombo spurgando gas di scarico dai tubi di scappamento. I finestrini sono spalancati e le tendine rosso scuro di dubbia pulizia sbattono invadenti sulle spalle scoperte dei passeggeri, lasciando entrare effluvi che sanno di pesce, fogna e incenso, in un mix già esemplificativo delle sfaccettature dello Sri Lanka. Basta allontanarsi di poco dalla capitale e la natura diventa prepotente, rivelando i verdi accesi delle piantagioni di riso e quelli più scuri delle alte, sottili palme da cocco che ombreggiano le baracche dei contadini.
Il bus attraversa le strade polverose come un miraggio tremulo e ballonzolante, meno rapido di un sogno: gli slogan sulle fiancate che promettono «Turbo» e «Intercooler» sono prontamente disattesi con lentezza e gocce di sudore. La vernice quasi fluo del nostro mezzo contrasta con i colori della natura e il verde degli alberi, pur potendolo definire quasi sobrio in confronto ad altri veicoli in arrivo dalla direzione opposta, decorati con immagini ancora più kitsch dagli echi nazionalisti.
Dai fianchi del quarantotto sporgono tante facce curiose in cerca di un vento che disperda quella foschia di umidità e fumo di carne alla griglia. Facce abituate al calore soffocante. I capelli del conducente sono spazzati dal ventilatore sopra il volante e dall’aria che entra dalle porte perennemente aperte. A guardia dell’ingresso, il controllore appeso come un equilibrista resta ben fermo nelle infradito nonostante gli scossoni non ammortizzati.
Non ci sono altri stranieri sui sedili stretti: il sito di interesse di Dambulla, quello con le grotte buddiste, è vicino all’omonima cittadina, e lì non c’è nulla. Solo smog, macchine, veicoli strombazzanti e marciapiedi malmessi che attentano alla vita dei pedoni accaldati. Il bus si ferma: scende il monaco vestito di arancione brillante in prima fila; lo zaino impietosamente maltrattato viene recuperato e buttato su un tuktuk, tradizionale risciò a motore. Di nuovo in marcia con il ronzio della motoretta nelle orecchie: pochi chilometri, ed ecco l’ingresso del santuario. È in mezzo alla giungla, con molte scimmie ormai non più intimidite dai turisti. Per arrivare alle grotte, il sacrificio richiesto è quello di una piccola scarpinata: su per i gradini irregolari, tra anziani con i bastoni e viaggiatori che sbuffano sotto l’afa pluviale. A metà della salita, una carezza per gli occhi, un mare verde ondeggia davanti, quasi senza fine, rami a destra e sinistra a fare da cornice oltre il limite delle palpebre.
Per un momento lo spiazzo rimane deserto: senza i brontolii dei camminatori, c’è solo il rumore della foresta. Il sole batte sulla faccia, lo stesso che riscalda il pavimento di roccia e pietra, quasi ustionante le piante dei piedi. Per entrare nel sito, le scarpe sono vietate. Le irregolarità del terreno creano un piacere inaspettato, unendo con un filo sottile i camminatori odierni a quelli di secoli or sono, in un parallelo tra jeans e tonache religiose.
Le grotte meglio conservate e più impressionanti sono cinque: scavate nella roccia nel I secolo a.C., contengono statue e pitture buddiste dai volti rasserenanti. È un’invasione di arancione, giallo, marrone, oro, scacchiere bicolori, offerte di fiori e incensi. I soffitti sono una girandola di decorazioni, così precise che sembra quasi qualcuno abbia dipinto su un telo, per poi appenderlo. Intonaco bianchissimo fuori, semi-buio dentro. Alcune nicchie più piccole sono dedicate alle divinità indù, pochi fedeli vi pregano davanti. Ma Ganesh non c’è: lui ha continuato la sua lenta corsa, omaggiato con frutta tropicale, i fiori ai suoi piedi irrigati con uno spruzzino, sul cruscotto di un bus «Turbo» che arranca su corridoi di asfalto fiancheggiati da banyan e alberi contorti.