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Lo sguardo obliquo di un genio della comicità

Vite da ridere (o quasi): ci sono maschere talmente iconiche da rimanere impresse in quanto tali, facendo dimenticare tutto il resto, nome compreso. Il caso di Marty Feldman
/ 06/05/2024
Carlo Amatetti

Bombetta e bastone. Impermeabile e ombrello. Sigaro e occhiali (e naso finto…). Questi sono solo alcuni degli elementi costitutivi di tre maschere comiche per eccellenza: Charlot, Monsieur Hulot e Groucho Marx. Il bello di queste maschere era la loro praticità. Bastava riporle in un armadio a fine giornata e tornarsene a casa. Ma se, come ad esempio per Oliver Hardy (in arte Ollio), la tua maschera sono i chili in più, beh quei chili tornavano a casa con te. E non sono mai un bel compagno di viaggio. Peggio ancora se la tua maschera comica dipende da un tratto fisico che neppure una dieta ferrea può mettere a posto, come due occhi strabici da competizione! E proprio questi ultimi fecero la fortuna – e furono la condanna – di un comico che tutti conoscono, ma proprio tutti, e mai – e sottolineo di nuovo mai – per il suo nome vero: Marty Feldman. Eppure ha avuto un ruolo cruciale sia nel rivoluzionare la comicità britannica degli anni Sessanta, sia tutta quella occidentale a seguire. Ciononostante, il contributo più duraturo non lo diede con le interpretazioni, ma con la penna. Del resto, citando un suo noto adagio, «la penna è più potente della spada… e decisamente più comoda per scrivere». Per capirne di più, facciamo allora qualche passo indietro.

Londra, East End, 8 luglio 1934. Un’immigrata da Kiev dà alla luce un vero cherubino, che dirà: «Assomigliavo a Shirley Temple, una specie di Shirley Temple gotica… una Shirley Temple ebrea». Dopo un’infanzia tanto povera quanto felice, le cose per lui si complicano proprio quando, finita la guerra, la sartoria del padre comincia a ingranare. Viene mandato in scuole sempre più prestigiose. Ma il risultato è sempre lo stesso: espulsione. Da tredici scuole consecutive.

A Feldman non interessano né i soldi né la posizione sociale, ma solo il jazz, tanto che ha una folgorazione: è certo di poter sbarcare il lunario come jazzista a Parigi. La sua sicumera gli deriva dal fatto che delle due caratteristiche principali del jazzista, ne possiede almeno una: ama le droghe. Quanto a suonare… ci sarà tempo per imparare. Dopo sei mesi, però, la strategia si mostra stranamente fallimentare e viene rimpatriato.

A Londra prova a fare il fotografo, lo sguattero, il commesso, lo «spacciatore» di libri usati, il pugile, l’assistente di un fachiro, tutto sempre senza successo. Comincia allora a esibirsi nei peggiori teatri inglesi – sistematicamente ubriaco – con il trio «Morris, Marty e Mitch», ma proprio quando cominciano a ingranare, molla tutto. Nel mettere mano (in altre parole, rubando) al materiale altrui per gli sketch del trio, infatti, a poco a poco ci aveva preso gusto e aveva cominciato a scrivere materiale originale. Quando scopre che c’è chi pagherebbe per averlo, decide che il suo futuro è nella scrittura. Scelta azzeccata: da solo o scrivendo in coppia con Barry Took, diventerà una delle penne più importanti di radio e tv inglesi. Ed è proprio come autore che cambierà per sempre la comicità britannica, spostandola definitivamente sul piano della follia e della surrealtà, istruendo su questo fronte, come loro capoautore, quelli che completeranno per lui questa rivoluzione: i Monty Python.

I ritmi frenetici di quegli anni – poteva scrivere fino a trentanove episodi televisivi all’anno, più due spettacoli radiofonici a settimana – conditi da sigarette e caffè a volontà, lo fanno ammalare di una grave forma di morbo di Basedow-Graves. Per curarlo gli somministrano una dose eccessiva di un medicinale per il trattamento tiroideo e la sua faccia reagisce malamente. L’occhio strabico, che si era procurato con un incidente d’infanzia, a un tratto si gonfia. Inizialmente gli dicono che è una condizione reversibile ma come dirà anni dopo: «sto ancora aspettando». È la nascita di Marty Feldman come lo conosciamo.

Il suo debutto davanti alla macchina da presa avviene nel febbraio del 1967 nella trasmissione seminale At Last the 1948 Show: John Cleese e Graham Chapman devono sudare le proverbiali sette camicie per convincere il produttore David Frost a mostrare ai telespettatori inglesi i lineamenti grotteschi di Marty: la scelta è un successo clamoroso. Quella faccia, ammaccata dalla boxe, devastata dalla tiroide iperattiva, martoriata da incidenti d’auto, cadute e risse, diviene all’istante un’icona. In Inghilterra viene subito accolto come una star e ben presto il suo show sbarca anche in America. Proprio comparendo sulla TV d’Oltreoceano ispira Gene Wilder a costruire su di lui il personaggio di Aigor in Young Frankenstein (1974), il ruolo che lo consacrerà per sempre e dal quale non riuscirà più a distinguersi.

Seguono altri ruoli, diretto ancora da Mel Brooks e da Gene Wilder, inoltre compare anche in un assurdo film a episodi di Sergio Martino. In un delirio di onnipotenza accetta la sfida della «triple threat», ovvero la tripla minaccia: girare film di cui contemporaneamente è protagonista, sceneggiatore e regista. Sarà un errore fatale. Il primo tentativo, Io, Beau Geste e la legione straniera (1977), è un successo. Completamente saturo di alcolici, droghe e megalomania, allora ci riprova con Frate Ambrogio (1980), ma stavolta è un disastro tale che la Universal straccia il suo contratto.

Cade in depressione. Nel novembre del 1980 gira voce che sia scampato per poco a un tentativo di suicidio, ingerendo un’overdose di sonniferi. Nel 1982 decide così di tornare in patria e in televisione. Ma, prima, accetta di fare un ultimo film per un senso di lealtà verso i vecchi amici che a loro volta gli sono sempre stati vicino. Il film è Barbagialla, il Terrore dei Sette Mari e Mezzo con un cast che sembra la sintesi della sua intera carriera: dalla confraternita di Mel Brooks con Madeline Kahn, Kenneth Mars e Peter Boyle ai vecchi compagni di Marty, da Spike Milligan a Peter Cook, passando per Graham Chapman, Eric Idle e John Cleese. Le riprese si svolgono a Città del Messico. Stremato dalla fatica, dal caldo e dai suoi canonici tre pacchetti di sigarette al giorno, la sera del 2 dicembre viene stroncato da un infarto. Il giorno dopo sui giornali di tutto il mondo compare il suo volto. Tutti hanno il suo nome sulla punta della lingua. Ma sì, certo, poverino, è morto il caro… Aigor.