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L’arte di giocare con gli algoritmi

Colpo critico: «Turing Machine» ci porta nel meccanismo alla base dei computer e «Narabi» coniuga matematica e poesia
/ 29/04/2024
Andrea Fazioli

È uno scrivano babilonese, quattromila anni fa. Siede sotto le fronde di un albero poco lontano dal fiume. Si è messo in mente che dev’esserci un modo per estrarre le radici quadrate senza ricalcolare tutto ogni volta dal principio. Dev’esserci una strategia, una serie di pensieri che sfocino l’uno nell’altro, come vasi comunicanti.

Quello scrivano, senza saperlo, sta creando un algoritmo.

È un momento cruciale nella storia dell’umanità, benché nessuno se ne accorga. Il fiume scorre, un asino raglia in fondo alla strada. Una donna culla un bambino. E intanto lo scrivano incide segni nella tavoletta d’argilla, infilza ragionamenti, calcola l’inverso di ogni numero. Da quell’algoritmo primitivo nasce una maniera nuova di pensare, un cambiamento che attraversa i millenni fino ad arrivare qui, oggi, nei nostri telefoni, abitati (infestati?) da social network che ci assillano con mille consigli per gli acquisti.

Nella sua Breve e universale storia degli algoritmi (Luiss University Press 2019) lo studioso Luigi Laura scrive che un algoritmo «è simile a una ricetta: è un procedimento per giungere a un risultato (ad esempio, una torta) a partire da dati o informazioni in ingresso (gli ingredienti)». Viene spontaneo pensare ai motori di ricerca, all’intelligenza artificiale, magari ai bitcoin. Ma essenzialmente un algoritmo è, prima di ogni altra cosa, un gioco. Funziona in entrambe le direzioni: prendi gli ingredienti e prepara una torta; mangia la torta e riconosci gli ingredienti.

In Turing Machine di Fabien Gridel e Yoann Levet (Scorpion Masqué 2022), da uno a quattro giocatori si calano negli ingranaggi di un algoritmo. L’idea è ispirata ad Alan Turing (1912-54), uno dei più grandi matematici contemporanei, considerato il padre dell’intelligenza artificiale e celebre, fra le altre cose, per avere creato durante la Seconda guerra mondiale una macchina capace di decrittare i codici segreti nazisti. Nel 1946 progettò l’ACE (Automatic Computing Engine), una sorta di proto-computer. Turing Machine ci porta proprio qui, nel cuore del meccanismo che permette l’esistenza stessa dei computer. Il tutto è ricostruito senza elettricità e senza schermi, grazie a un ingegnoso sistema di schede perforate.

La grafica è minimalista: non ci sono fronzoli, ma solo dei criteri di base (gli ingredienti) da combinare per ottenere il codice segreto (la torta). Turing Machine è accessibile a partire dalla scuola media ed è assai elegante proprio perché, senza orpelli, sollecita i giocatori a usare il pensiero deduttivo e induttivo come fanno gli scienziati o gli investigatori nei libri gialli. Si può affrontare in modalità cooperativa oppure competitiva: in questo caso vince chi per primo individua il codice esatto fra sette milioni di combinazioni possibili (tirando a indovinare non si va lontano…). Dopo essermi cimentato in un certo numero di partite, mi permetto di dare questo consiglio: se lo giocate con amici matematici o fisici, preparatevi a perdere con regolarità.

Un’ispirazione simile ha guidato Daniel Fehr nel creare Narabi (Lifestyle Boardgames 2019). In questo caso la matematica si cela in un’ambientazione poetica: i giocatori devono collaborare per disporre le pietre di un giardino tradizionale giapponese. Ogni carta-pietra è abbinata a un criterio; i partecipanti, da tre a cinque, devono operare una serie di scambi per collocare le pietre in ordine progressivo, usando al massimo venticinque mosse. Il pretesto del giardino giapponese è una maniera raffinata per entrare in materia, ma si tratta pur sempre di seguire il percorso di un algoritmo. Narabi è un connubio fra spirito zen e analisi logica: veloce, essenziale, preciso e con qualche accorgimento per aumentare la difficoltà (nel caso in cui giochiate con gli amici matematici di cui sopra).

Sia Turing Machine, sia Narabi sono divertenti anche per chi non ha mai preso una sufficienza nelle materie scientifiche. Del resto, sfumato dalla memoria, mi sembra dolce anche il ricordo del mio primo incontro con l’algoritmo più antico in circolazione, quello creato da Euclide intorno al 300 a. C.. Mi pare di risentire la voce del professore, nell’aula invasa dal sole di settembre: «Dati due numeri interi A e B, il massimo comun divisore di A e B è il più grande numero intero che divide i suddetti numero A e B…». Chi l’avrebbe mai detto che, tanti anni dopo, avrei esplorato un algoritmo come si attraversa una giungla, guidato dall’istinto e pronto a ogni colpo di scena.