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Adriano Heitmann, art director e fotografo
Primi piani - Ha lavorato per diverse testate giornalistiche e ancora oggi si concentra sulla valorizzazione dell’immagine e delle storie che hanno da raccontare i reporter
Stefano Spinelli
Possiamo situare nell’arte del costruire racconti con le immagini, del saperle porre in sequenze che riescano a conferire loro ulteriore senso, una delle chiavi d’accesso al mondo fotografico di Adriano Heitmann, che ci accoglie nel luminoso soggiorno della sua casa in collina. Seduti a un ampio tavolo sul quale poggiano diverse pubblicazioni e un buon caffè, cominciamo a esplorare la pluridecennale produzione del fotografo ed editore, discutendo di immagini e di libri fotografici, ma anche del mondo della comunicazione e della capacità intrinseca alla fotografia di farci viaggiare nei suoi mille concreti e metaforici mondi.
Ed è proprio dalle immagini di viaggio e dai viaggi stessi che prende spunto la nostra conversazione. Spunto non tanto volto all’approfondimento del lavoro in qualità di fotografo, ma per capire le ragioni che lo hanno presto condotto verso l’editoria. Ad Heitmann, della fotografia, ha sempre importato prima di tutto la dimensione comunicativa. «Fondamentalmente, nello spirito sono un fotoreporter, poi giornalista perché mi piace raccontare le storie, storie brevi. Una cosa che ho capito subito, è che per me lo stadio finale della fotografia è dato dal raccontare una storia in forma di libro. Per me il libro è sacro». Per questo motivo non gli è mai veramente interessato esporre i suoi lavori, e neppure venderli, ma piuttosto pubblicarli. Prima sui giornali, e poi attraverso libri, ritenendo questi media più consoni al suo sentire, alle ragioni del suo fotografare.
Fin dagli anni Settanta collabora con varie riviste, tra queste anche le più diffuse (come Geo, ZeitMagazin, Schweizer Illustrierte, L’Illustré, NZZ, eccetera). Erano anni in cui sui media veniva dato ancora ampio spazio alla fotografia – compresa quella a colori, prediletta dal nostro interlocutore. Presto, Heitmann si rende però conto di uno scollamento tra il mondo delle redazioni e degli art director, spesso autoreferenziale, e quello complesso dei fotografi, che sul terreno si confrontano con mutevoli e molte volte irriducibili problemi concreti, oltre alle talvolta impossibili richieste di chi, seduto a una scrivania, sta magari a migliaia di chilometri di distanza dal proprio inviato: «Sono mondi a parte: gli art director stanno in una redazione, mentre il reporter nel raccontare una storia è molto preciso. Quindi, il lavoro del grafico e dell’art director di una rivista è nei migliori dei casi una questione estetica. Però per raccontare la storia la devi aver vissuta tu».
E dunque la fotografia è narrazione – di un evento, di un tempo, di un mondo. Di una storia che, aderente o meno alla stretta realtà, solo il fotografo – reporter, fotogiornalista – può raccontarci con la forza di chi la sta vivendo in prima persona. Narrando, col suo fotografare, un racconto che solo in rarissimi casi è stato riassunto in modo magistrale con un’unica iconica immagine. Quale può essere, per dare un esempio, quella della bambina vietnamita che, nuda, in più parti del corpo ustionata e in preda al terrore, con le braccia alzate al cielo, insieme ad altri bimbi fugge da un bombardamento americano al napalm (Nick Ut, 1972). Queste, iconiche, rare, e per certi versi universali fotografie possono anche cambiare il corso della storia. Per il resto, con le immagini che – della stessa serie – non rientrano in quella categoria, la miglior cosa da fare è di riuscire a metterle tra loro in sequenza creando sapienti rimandi e accostamenti. In funzione, appunto, della storia che portano con sé: «Per cui è fondamentale la selezione, e dopo, la sequenza, che è estremamente importante. Lì ritengo di essere un esperto. Il grande pericolo della fotografia – succede quasi sempre – è che la pubblicazione, la mostra, diventi un catalogo, non un libro. Ho sempre cercato di evitare di fare cataloghi delle dieci migliori foto».
Per quanto lo riguarda, ha privilegiato le storie brevi, realizzate con un numero contenuto d’immagini, portando nel contempo uno sguardo attento alla composizione grafica, al ritmo dettato dai vari formati delle immagini, al dialogo tra testo e fotografie. Questa attenzione gliela riconosciamo fin dalla prima sostanziosa pubblicazione, dedicata a una serie di sue immagini realizzate in Messico nei primi anni Ottanta – edita col tautologico titolo/non titolo Messico oggi. Per la storia, l’oggi del titolo è stato imposto dall’editore contro il volere dell’autore che lo considerava, oltre che superfluo, sbagliato in quanto in breve tempo sarebbe divenuto anacronistico. Tanto per evidenziare le irritanti incomprensioni non di rado presenti nel rapporto tra autori e responsabili di pubblicazioni.
Tra le diverse pubblicazioni, ricordiamo l’edizione di otto piccole monografie dedicate alla fotografia ticinese, ma anche Testimoni del tempo, il libro col quale ha rivelato al vasto pubblico la potenza magica dello sguardo di Flor Garduño, la fulgida fotografa messicana con cui ha condiviso viaggi nel continente americano e parte della sua vita affettiva. E di cui curerà nel tempo svariate esposizioni, presentate in molte città del mondo, così come diverse pubblicazioni.
L’abilità di Heitmann nell’infondere equilibrio e senso lavorando di editing, lo porterà nel 2007 ad accettare l’incarico per il restyling della veste grafica del settimanale «Ticino7». Un lavoro sulla forma non può fare astrazione dai contenuti. Nel costruire la rivista, Heitmann capovolgerà le abituali logiche editoriali. Sarà la presentazione visiva della comunicazione pubblicitaria a rimandare ai contenuti editoriali, e non il contrario, tenendo comunque vivo un fecondo dialogo tra i due ambiti, a vantaggio di entrambi: «Con “Ticino7”, che era un po’ datato dal punto di vista dei concetti, ho voluto creare unità. Quello che spesso le riviste non hanno: lì, le pagine pubblicitarie vengono messe addirittura prima dei contenuti giornalistici, e sono quelle che hanno i posti più pregiati della rivista. Il redazionale diventa un po’ un ornamento della pubblicità. In Ticino7 ho invertito questa cosa. Andavo in redazione e vedevo che pubblicità arrivava, dove andava messa e a partire da questo fatto, che io non potevo influenzare, sceglievo i reportage, il linguaggio dello stesso e quello delle pagine». Nei tanti numeri prodotti sotto la sua direzione artistica, durata un anno esatto, largo spazio occuperanno la fotografia, l’illustrazione, l’editing tipografico, progettati e creati ad hoc grazie anche al talento dei suoi collaboratori per dar forma a quel percorso a sé che caratterizzerà ogni uscita.
Heitmann, infine, ci spiega a grandi linee un suo prossimo progetto editoriale col quale, rivolgendosi ai giovani, vorrebbe suggerire loro quanto la fotografia dia modo di viaggiare alla scoperta del mondo, delle sue molteplici dimensioni. E di come questo viaggiare, ribaltandone la consueta ottica, possa portare a un approfondimento della conoscenza di sé.