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Si alza il vento, viviamo!

Cinema - Il pioniere italiano dell’aeronautica fa capolino anche in un film del Sol Levante

«Quando si alza il vento, occorre tentare di vivere» (dal verso «Il vento s’alza!… e tu tenta di vivere!» di Paul Valéry) è il leitmotiv che attraversa con grazia, come un filo di seta, impalpabile e quasi etereo, Si alza il vento, il film di Miyazaki del 2013 in cui il Conte Gianni Caproni è rappresentato come un uomo bonario, ma dalla potente forza ispiratrice.

Si alza il vento doveva essere l’ultimo film del Maestro giapponese (tornato però nel 2023 con Il ragazzo e l’airone), che ha sempre affidato alla dimensione onirica l’anima dei suoi film, da Kiki consegne a domicilio (1989), dove non ci sono personaggi negativi, ai misteriosi La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004), in quello che è un elenco forzatamente monco, ma comunque rappresentativo di una ricerca di personaggi fuori del comune.

In Porco Rosso (1992) e Si alza il vento, il racconto di Miyazaki si intreccia con più intensità alla storia recente del Giappone, e alla sua vicenda umana personale, lasciando comunque in ultima battuta il posto d’onore alla fantasia.

Pierre Meazzini racconta di come l’idea del film sia nata da un suo cugino, appassionato di manga giapponesi. Un giorno nel film Porco rosso il cugino riconosce degli aerei Caproni, e così decide di mandare a Miyakazi dei materiali riguardanti Gianni Caproni. Il regista giapponese, a sua volta figlio di uno sviluppatore della Mitsubishi e appassionato di volo, era a dire il vero già «incappato» nel pioniere italiano dell’aeronautica, ma attraverso i materiali ricevuti vi riconosce in filigrana anche (al di là dell’utilizzo bellico dell’aviazione) un grande sogno, ossia quello di volare per avvicinare la gente.

Nel film, che si ispira vagamente a un’opera di Tatsuo Hori, si ripercorrono le gesta del geniale Jiro Horikoshi, ingegnere impiegato dalla Mistubishi negli Anni Trenta del Novecento, miope e con il desiderio di diventare un grande progettista di aeronautica. Horikoshi nel suo percorso esistenziale fatto di gentilezza e idee geniali, dell’immenso amore per la sorella e la moglie e dell’inesorabile regressione della vista, è ispirato dalla figura dell’elegante Conte Caproni (titolo di cui fu insignito nel 1940 da Vittorio Emanuele III), che lo visita in sogno per accompagnarlo in volo e, guardando quella meraviglia che è il mondo dall’alto, spronarlo a coltivare le proprie visioni.

L’inconfondibile tratto delicato di Hayao Miyazaki (classe 1941) riesce a collocare vicende drammatiche – si ricordano il terremoto del Kanto del 1923, gli aerei partiti e mai ritornati, o lo spettro di una guerra mondiale i cui esiti conosciamo tutti, soprattutto per il Giappone – in un tempo sospeso, dove l’estetica sembra epurare il mondo (per la durata di un lungometraggio) da quanto di orrendo lo contraddistingue. Protagonisti, dunque, oltre ad aerei nati per uccidere, diventano un gesto di timidezza, l’amore puro di due esseri condannati, un’idea che si fa ragione di vita, grandi afflati coniugati a minuzie della quotidianità, raccontati con un tratto di penna magistrale.

È un po’ come aveva detto Meazzini, all’inizio dell’intervista: in fondo anche Gianni Caproni avrebbe voluto, così come Horikoshi, che l’aviazione si sviluppasse in primis in ambito civile, per unire i popoli, creare ponti e conoscenza. Come tutti i grandi pionieri, anche loro avevano sentito il richiamo del vento, ché, quando si alza, occorre tentare di vivere, con la stessa struggente intensità espressa da Paul Valéry nel suo Cimitero marino.

Due musei omaggiano il genio di Caproni

Per gli amanti dell’aeronautica e della sua storia due sono le sedi museali dedicate alle scoperte e al lavoro di Gianni Caproni.

Volandia, in prossimità di Malpensa, è nata dal recupero delle storiche Officine Aeronautiche Caproni, fondate nel 1910, a cui il nipote di Caproni, Pierre Meazzini collabora in qualità di presidente del comitato scientifico. Il museo permette di ripercorrere la storia dell’aviazione in un itinerario che si snoda attraverso numerose aree tematiche: le forme del volo, l’ala fissa, l’ala rotante, i droni, gli aeromodelli, eccetera.
Oltre all’esposizione di numerosi velivoli, sono previste proiezioni, vi sono anche un planetario didattico e un padiglione dedicato allo spazio.

Info e prenotazioni
Volandia, Parco e Museo del volo, Somma Lombardo (VA); www.volandia.it, Tel. +39/0331-230007.

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Anche il Museo dell’aeronautica di Trento offre in esposizione una collezione di aeromobili storici originali, qui infatti è confluito gran parte del Museo Aeronautico di Gianni e Timina Caproni fondato nel 1927. È il primo museo aziendale d’Italia e tra i primi a esporre una collezione di aeronautica a livello mondiale. La buona conservazione dei mezzi esposti è da ricondursi alla lungimiranza degli stessi coniugi Caproni, che si erano opposti allo smantellamento degli aerei più importanti. A Trento si trova anche l’importante patrimonio librario e archivistico, comprendente i fondi fotografici e il fondo di pellicole.

Info e prenotazioni
Museo dell’aeronautica Gianni Caproni, Trento; www.museostorico.it Tel. +39/0461-1747045.


Il lungo volo del Conte di Taliedo che sognava di avvicinare i Paesi

L’incredibile parabola di Giovanni Battista Gianni Caproni, fra i grandi protagonisti dell’aeronautica internazionale e di una pellicola del regista di culto giapponese Hayao Myiazaki
/ 26/02/2024
Simona Sala

Li miei compagni fec’iosì aguti, / con questa orazion picciola, al cammino, / che a pena poscia li avrei ritenuti; //e volta nostra poppa nel mattino, / de’ remi facemmo ali al folle volo, / sempre acquistando dal lato mancino.

(Dante, Inferno, Canto 26)

Vi fu un tempo (anche piuttosto lungo, a dire il vero) in cui ogni volo che non fosse di uccello o tutt’al più della fantasia, veniva considerato «folle», in un’accezione che però individuava la follia nel desiderio di varcare limiti per loro natura invalicabili, poiché appannaggio del Celeste, di ciò che sta più in alto.

Giovanni Battista Caproni, «Gianni» per la famiglia, quel confine lo sentiva però sin dall’infanzia non come un limite, bensì come uno sprone a raggiungere e superare quelle vette che, in una visione più ampia, avrebbero permesso un giorno di «collegare tutti i Paesi del mondo, trasportando le persone da una parte all’altra e creando così una rete internazionale, cui sarebbero seguite una vera conoscenza e una vera unione di ogni Paese con l’altro; dunque l’aeronautica come strumento per collegare le civiltà». A parlare di un nonno che ha contribuito alla storia dell’Italia recente, per il suo ruolo di precursore, è il nipote Pierfrancesco Meazzini, che gli onori di casa li fa proprio all’ingresso del sontuoso Palazzo Durini, a pochi passi da San Babila a Milano, a suo modo comprimario di una vicenda famigliare strettamente intrecciata con quella di un’intera Nazione.

Gianni Caproni era nato ad Arco, allora Trentino, nel 1886, quando la località era ancora sotto la dominazione austroungarica, in una famiglia irredentista per l’epoca già particolarmente cosmopolita: suo padre era una figura a metà tra un agrimensore e un progettista, dunque interessato a progetti e strutture, ma anche esperto di botanica e agricoltura. Il suo spirito appassionato in qualche modo influenzò i figli Federico, che nel 1902 fu uno dei primi a laurearsi alla Bocconi in agronomia per poi specializzarsi a Napoli, e Gianni, che studiò ingegneria civile al Politecnico di Monaco di Baviera e poi prese una seconda laurea in elettrotecnica a Liegi.

Il cosmopolitismo dei due giovani Caproni fu corroborato dal bilinguismo che caratterizza il Trentino, che certamente rappresentò un atout, ma non sarebbe stato sufficiente al netto del senso di disciplina e di sacrificio messi in campo dalla madre Paolina Maini quando, giovanissima, si ritrovò a elaborare il lutto della perdita del marito e di due figlie morte bambine.

Come spiega Meazzini, se Gianni Caproni seguì un percorso formativo ingegneristico fu in primis perché si era appassionato a quella che era la tecnologia, l’innovazione del momento. Ci si trovava infatti in una fase in cui, dopo il primo volo dei fratelli Wright del 1903, in particolare in Francia, attraverso le figure di Louis Blériot e Gabriel Voisin, cominciava a svilupparsi l’industria aeronautica, e questo «sebbene il volo fosse ancora considerato un’azione da singolo avventuroso, da cavaliere, e non se ne prevedeva alcuno sviluppo industriale, né tantomeno si considerava l’aeroplano un veicolo per il trasporto commerciale. All’epoca esistevano il trasporto via mare, quello via terra con il treno, e da qualche tempo anche con le automobili, grazie ai primi motori Benz. Parliamo dunque della conquista di una nuova dimensione», sottolinea Meazzini.

I primi coraggiosi voli dall’esito incerto

Nonostante i pericoli notoriamente legati ai primi voli (come dimostrò quello del pilota peruviano Georges Antoine Chavez, che nel tentativo di un primo attraversamento delle Alpi nel 1910, durante il viaggio di ritorno precipitò sopra Domodossola) il fratello Federico non mancò mai di esaltare le ambizioni di Gianni Caproni, intravvedendovi sviluppi interessanti.

Fu sempre nel 1910, il 27 maggio, identificato in Malpensa il terreno adatto e grazie al sostegno – morale e fisico – del fratello, di amici e parenti (cui l’anno dopo si aggiunse l’ingegnere De Agostini), che Gianni Caproni poté fare volare il suo primo velivolo a motore, il Ca.1. A differenza di molti suoi sodali con la stessa passione per il volo, l’ingegnere però non pilotava, e così il compito del primo volo fu affidato all’autista Ugo Sandri Tabacchi, che davanti alla Cascina Malpensa di Somma Lombarda si librò in volo per qualche centinaio di metri, finendo per schiantarsi al suolo, per fortuna senza conseguenze rilevanti.

«In realtà quella di mio nonno, più che un’azienda di aeronautica era una sorta di baracca dove lavoravano due falegnami che si era portato appresso dal Trentino; Ernestone ed Ernestino», continua Meazzini. «Gli aeroplani venivano realizzati in tela e in legno di bagolaro, scelto da Gianni Caproni per le sue qualità di robustezza e flessibilità». Nello stesso periodo Caproni fondò anche l’omonima Scuola di Aviazione a Vizzola Ticino, dove nel 1912 già prendeva il brevetto la prima donna, Rosina Ferrario. Gli aerei successivi, Ca.2, Ca.3 fino al Ca.7, furono realizzati partendo dal modello dei fratelli Wright, usi a progettare biplani con due ali sovrapposte. Fu solo a partire dal 1911, con il Ca.8 che Caproni cominciò a sviluppare dei monoplani.

La vita di Gianni Caproni, oltre a distinguersi per la straordinarietà degli incontri e delle invenzioni, dei viaggi e degli esperimenti, fu caratterizzata anche da tutta una serie di sconfitte, come quella del 1913, quando il Ca. 18 non vinse il primo concorso militare tricolore, e l’azienda fu acquistata dallo Stato italiano. Gianni Caproni non si arrese, e per primo al mondo cominciò a lavorare al concetto dei trimotori che avrebbero poi portato allo sviluppo dei bombardieri. Inizialmente il problema principale, infatti, era rappresentato dai motori, nati per motociclette e automobili. Ma laddove quando si ferma una macchina, basta ripartire, l’aereo finisce per precipitare.

Caproni aveva compreso che i motori normali erano troppo pesanti per il volo, e quindi era necessario progettarne di appositi per gli aeroplani, con materiali diversi che garantissero sicurezza e leggerezza; inserì quindi più motori all’interno di ogni apparecchio, così da permettere, nel caso di arresto di un motore, che l’aereo continuasse a volare. «Nonostante l’innovatività del progetto, lo Stato italiano decise di non investire nello sviluppo di quegli aerei, per cui intorno a mio nonno si creò una cordata di personalità che non lo sostennero solo economicamente, ma che cercarono anche di esercitare influenze politiche e relazionali», spiega Meazzini.

L’operazione si rivelò un successo (con tutte le cautele del termine), tanto che durante il Primo conflitto mondiale oltre all’Italia, gli aerei Caproni furono impiegati anche da Inghilterra, Francia e USA. E proprio gli Stati Uniti, i cui primi cadetti furono mandati a formarsi nella scuola di Caproni a Foggia (scuola appartenente all’esercito italiano e nata in  seguito a un accordo preso tra quest’ultimo e il governo degli Stati Uniti) sotto l’egida di Fiorello La Guardia (storico sindaco di New York e senatore), gli riconobbero il merito di avere gettato le basi dell’aeronautica: fu per questo che sotto la presidenza Roosevelt la fotografia dell’ingegnere finì appesa nello Studio Ovale della Casa Bianca, accanto a quella dei fratelli Wright.

Gianni e Timina, amici e coniugi

Oltre alla caparbietà, continua il nipote (che ha fatto dello studio delle gesta del nonno materno quasi una missione, cercando di tenerne viva la fervida memoria), Caproni aveva dalla sua anche una moglie incredibile, quella che Meazzini affettuosamente ricorda come «nonna Timina».

Timina Guasti, infatti, figlia di Federico Guasti – notaio prediletto delle banche e dell’industria e organizzatore della cordata di cui sopra – sposata nel 1927 e più giovane di 15 anni, in dote non portò solamente parte del prestigioso milanese Palazzo Durini e della cinquecentesca tenuta a Venegono Superiore (Varese), ma anche un temperamento fuori del comune: «Parlava quattro lingue, giocava a golf, sciava, andava a cavallo all’amazzone, ma soprattutto era stata educata a essere una compagna di vita, prima ancora che una moglie. Da subito accompagnò il nonno in viaggi per le capitali europee al fine di consolidare la posizione internazionale della Caproni nello sviluppo dell’aeronautica».

Caproni continuò, per anni, a lavorare ai suoi progetti, accumulando nel corso di una vita, ben 160 brevetti, 72 record del mondo e 180 modelli di aerei, ed espandendo costantemente la propria sfera di influenza attraverso una serie di collaborazioni e acquisizioni di aziende, come quella dell’azienda automobilistica Isotta Fraschini. Siglò anche un accordo di licenza di costruzione degli automezzi MAN e nel 1929 creò la Caproni Curtiss Corporation, joint venture con la Curtiss Wright americana e fondò aziende in Sudamerica, Europa e Asia. In virtù del suo cosmopolitismo e anche di un buon fiuto per gli affari, i suoi rapporti commerciali con l’estero erano ottimi, per cui l’idea di un Secondo conflitto mondiale trovava in lui delle resistenze («Nonno era un “fiero oppositore” della Guerra e ha cercato di spingere alla neutralità italiana a tutti i livelli», sottolinea Meazzini), e di questo lo Stato italiano gli presentò il conto: alla fine della guerra si ritrovò sommerso dai debiti, impossibilitato a mettere in cassa integrazione migliaia di operai, oltre che accusato di collaborazionismo, «una macchia ingiusta per uno come lui, se pensiamo che, durante la guerra, nonna Timina tra la casa di Roma (dove c’era un passaggio segreto) e quella di Venegono nascose a lungo tre persone di fede ebraica, il generale Pugliese e due Schwester impiegate come istruttrici».

L’attenzione di Caproni per il territorio e aspetti di natura sociale (ereditata dalla madre Paolina e dal padre, esperto di agraria) lo portò a finanziare scuole materne ed elementari ad Arco, Milano e Vizzola, oltre a scuole di specializzazione per operai e centri colonici per i dipendenti. L’ingegnere impiantò inoltre fabbriche in territori che offrivano poche opportunità di lavoro e si adoperò in opere di rimboschimento in Trentino e in Toscana; con il fratello Federico creò le Bonifiche Caproni a Vizzola, rendendo così coltivabile l’arido territorio di Malpensa.

Il grande amore per famiglia e arte

In una vita in perpetuo movimento e divenire come quella di Caproni vi erano due costanti, rappresentate da famiglia e arte. La sua solida unione con Timina Guasti diede vita a una numerosa famiglia di otto figli, «di cui mia madre Vittoria era la terzogenita. Nonno amava tutti i suoi figli, ma il prediletto era il più piccolo. Purtroppo, questi morì quando era ancora bambino, e per il nonno fu un colpo dal quale non si riprese mai più: morì poco dopo, nel 1957, a 71 anni».

Anche l’arte, in particolare la pittura, gioca un ruolo imprescindibile nella vita di Gianni Caproni. Egli vi si dedicava nel tempo libero dipingendo, ma soprattutto la collezionava e ne discuteva con gli stessi artisti, infatti, è soggetto di migliaia di opere, ancora in attesa di una collocazione definitiva che le valorizzi e sia eventualmente aperta al pubblico. Meazzini scorre le pagine del volume Collezione Caproni di Taliedo, Aeropitture e raccolte aeronautiche, dove sfilano grandi nomi del 900 italiano come Mario Sironi, Bruno Munari, Gauro Ambrosi o Fortunato Depero, «a molti di loro il nonno era legato da un legame di forte amicizia, penso a Depero, ma anche a Gabriele D’Annunzio, che inventò per lui il motto di famiglia Senza cozzar dirocco, perché l’arte lo interessava molto. Anche nei momenti di attività bellica il nonno cercava la dimensione onirica del volo, un’immagine dell’aereo non come mezzo militare, ma come sogno. Per questo si è circondato di artisti come Luigi Bonazza, che aveva lavorato nella secessione Viennese, Aldo Savio o Carlo Contini. Nonno Caproni è diventato anche un film del regista giapponese Miyazaki, ed è come l’ha rappresentato lui, geniale e sognante, che mi piace figurarmelo», conclude Pierfrancesco Meazzini.