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Argentina. L’organizzazione delle reducciones
Le reducciones, le missioni dei gesuiti in America Latina, erano strutturate in modo molto simile a un antico castrum romano, un campo militare con i dormitori dei Guaranì allineati in file parallele ai lati della grande piazza su cui si affacciavano le case dei gesuiti e la chiesa, l’elemento centrale che sottolineava lo spirito comunitario. Davanti alla sua facciata passava la strada che divideva, dal punto di vista urbanistico ma anche simbolico, la società civile dagli edifici sacri. All’inizio l’incontro tra gesuiti e Guaranì fu difficile e molti missionari vennero uccisi, ma inaspettatamente l’arma segreta si rivelò la musica che faceva letteralmente impazzire i nativi e i Guaranì capirono in fretta che la protezione dei gesuiti era l’unica possibile contro i cacciatori di schiavi portoghesi e spagnoli.
Un altro fattore importante erano le numerose coincidenze tra la mitologia Guaranì e il messaggio cristiano dei gesuiti, incentrato molto sul rispetto per l’ambiente e un’agricoltura che oggi potremmo definire ecologica. Così i Guaranì accettarono una vita quotidiana scandita da regole severe e basata su un sistema sociale integrato di strutture urbane economicamente indipendenti e collegate tra loro. Il loro limite era però la totale dipendenza dei Guaranì dal paternalismo dei Padres che in linea con la cultura del tempo consideravano los indios bisognosi di protezione e incapaci di autogovernarsi.
C’era una volta Tupá-Mbaé, il mondo ormai perduto dei Guaranì
Reportage - Sono molte le sfide con cui deve confrontarsi il popolo dei Guaranì dello Stato argentino Misiones, dalla difesa di uno straordinario habitat che fa gola a molti, all’invasione tecnologica che rischia di stravolgere valori e modi di vivere
Enrico Martino, testo e foto
La risposta che cercavo me la rivela Victoriano quando, messa da parte un’ancestrale diffidenza, esce dalla capanna-tempio vietata agli estranei con uno degli oggetti più sacri della comunità Guaranì di Guavirà-Poty, un violino annerito da secoli di pioggia e umidità che rigira con delicatezza tra le sue mani di sciamano, come se avesse paura di spezzare l’incantesimo di questa macchina del tempo. Un’autentica illuminazione che riscatta tutta la polvere mangiata lungo le piste di terra rossa che tagliano come un coltello quello che resta della foresta pluviale, quasi il sequel perfetto dell’ultima sequenza del film Mission in cui un giovane Guaranì sparisce nella selva con un violino che ha salvato dal saccheggio dei soldati portoghesi.
Un momento all’altezza dell’incredibile utopia sociale del Sagrado Esperimento, e una risposta all’interrogativo che mi ha portato quaggiù, alla ricerca di dove fossero finiti i Guaranì dopo la fine delle reducciones, le missioni dei gesuiti disseminate tra Paraguay, Brasile e Argentina bollate nei secoli come proto-comunismo o teocrazia, lodate da illuministi come Voltaire e Montesquieu. In realtà la loro colpa è stata soprattutto quella di rappresentare un’intollerabile sfida per i Governi coloniali spagnoli e portoghesi, che nel 1750 si accordarono per spartirsi il cosiddetto «Stato gesuita Guaranì» con l’avvallo di papato e governanti europei.
Per capire cosa fosse realmente questo mondo perduto che i Guaranì chiamavano Tupá-Mbaé, «quello che è di Dio», bisogna raggiungere lo stato argentino di Misiones, una sottile striscia di territorio incuneata tra Paraguay e Brasile dove si consumò l’ultimo tragico capitolo dell’esistenza delle trenta missioni fondate dai gesuiti dopo il 1609. Dopo una breve e disperata resistenza tra il 1754 e il 1756, guidata in alcuni casi da gesuiti con esperienze militari che si ribellarono con coraggio agli ordini dei superiori, la maggioranza dei Guaranì venne ridotta in schiavitù e i pochi superstiti si rifugiarono nella selva che Kuarahy, dio dell’energia creatrice, aveva destinato loro riservando i terreni agricoli ai bianchi. Proibendo a ognuno, coloni europei e nativi, di invadere gli spazi dell’altro, ma senza troppo successo perché, soprattutto negli ultimi decenni, agricoltori e compagnie di legname hanno distrutto porzioni sempre più estese di foresta, letteralmente evaporate nel fumo degli incendi. Un’apocalisse esistenziale per un popolo che vede in ogni rottura dell’equilibrio ambientale i segni che preannunciano la fine del mondo.
Capire il loro mondo è impossibile senza conoscere i fiumi, gli alberi, gli uccelli, la terra e il potere della parola che in una cultura essenzialmente orale non è solo uno strumento per comunicare, è anima, e perderla significa morire per queste piccole comunità assediate da coloni e alcolismo, ma soprattutto colonizzate dalla televisione, e oggi persino dai social, che in pochi anni hanno trasformato un popolo di cacciatori e agricoltori in un universo di telespettatori di partite di calcio, telenovelas brasiliane e follower di TikTok. «È un disastro, poi ci sono i cacciatori di frodo che distruggono tutto», si indigna Martin che vive sotto la loro continua minaccia e non si è certo fatto i soldi proteggendo i quattrocento ettari di selva della riserva Jaguaroundì. «Denunciarli è pericoloso, i peggiori sconfinano dal Brasile con freezer e mitragliatori e se incontrano la polizia sparano sin problemas.
Il problema dei Guaranì è che non sono organizzati, per non parlare della corruzione, conosco un Cacique che appena ricevuti trentamila dollari dalla cooperazione spagnola per la sua comunità andava al casinò tutte le sere e quando gli hanno chiesto dove erano finiti i soldi ha risposto “noi ci facciamo quello che vogliamo”. Bisogna capire che ancora oggi i Guaranì appartengono alla cultura del cacciatore, quindi è meglio lasciar perdere un astratto idealismo, non ti diranno mai grazie, ma li posso capire, perché sono stati così defraudati che sono comunque ancora e sempre in credito. Il punto è che devono essere loro a decidere il proprio futuro e in realtà non lo hanno ancora fatto».
Un mondo che non si sente argentino, brasiliano o paraguayano, ma solo Guaranì, costretto a ripensare il proprio futuro, «Il problema principale è che vediamo diminuire sempre di più la selva e il monte. Come sopravvivremo?» si preoccupa Juan Duarte, che vive lungo il rio San Francisco. Una domanda esistenziale per la vita di un popolo così strettamente legato alla selva, che al nome «ufficiale» scritto sui documenti affianca un nome tradizionale. Quello di Juan significa «l’uomo della liana», espressione di un’identità legata a un mondo naturale di cui i Guaranì si sentono parte. Fernando, che vive nella comunità di Iryapù, pensa di avere la risposta, «Dobbiamo imparare in fretta a convivere con la società bianca».
«L’ambiente in cui siamo sempre vissuti non esiste più, ma i nostri figli continueranno a nascere e dobbiamo riuscire a dargli strumenti di conoscenza con cui possano diventare medici, avvocati, tecnici di computer. Però devono anche sapere chi sono e da dove vengono, per esempio se vado a caccia e prendo un pecari devo dividerlo con gli altri perché l’ambiente è di tutti, non solo mio, non è come se compro dieci chili di carne e li congelo». Così i Guaranì di Iryapù, come di altre comunità, si stanno organizzando per trasformare in opportunità sfide decisive come le vicine cascate di Iguaçù, Patrimonio dell’umanità UNESCO, ma soprattutto una crescente icona turistica dell’America Latina che rischia di sradicare un habitat di cui sono stati gli unici abitanti e custodi per secoli.
Un mondo annunciato da un rombo lontano che cresce mentre l’acqua del fiume inizia a scorrere sempre più velocemente prima di precipitare tra nuvole d’acqua nebulizzata nella Garganta del diablo, la Gola del diavolo, dove decine di cascate e milioni di metri cubi d’acqua convergono in un gigantesco pentolone ribollente d’acqua in cui si avventurano solo uccelli solitari in cerca di colpi di adrenalina. Uno scenario dantesco che tra le viscere della Terra nasconde un gigantesco tesoro liquido e più strategico del petrolio, il bacino acquifero Guaranì, probabilmente la più grande riserva d’acqua dolce sotterranea del mondo, di cui si ignora ancora l’estensione reale.
Per amara ironia porta proprio il nome di uno dei popoli indigeni più importanti dell’America meridionale, seduto ma senza alcuna reale voce in capitolo su almeno trentasette milioni di metri cubi di acqua, che per altri ricercatori potrebbero raggiungere i cinquantacinque milioni, estesi sotto i territori di Argentina, Brasile e Paraguay, nutriti da fiumi, corsi d’acqua e piogge, ma anche dalle sostanze contaminanti di un’agricoltura sempre più invasiva. Una risorsa strategica sempre più importante per gli equilibri geopolitici della regione che gestita bene potrebbe fornire al pianeta duecento anni di risorse idriche, teoricamente protetta da accordi interstatali ma sempre a rischio di privatizzazioni striscianti.
In attesa del futuro a Misiones ci si accontenta di leggende legate a ricchissimi tesori nascosti dai gesuiti prima di andarsene, spesso diffuse ad arte da altri ordini monastici rivali. «Grazie a Sant’Ignacio questa è la provincia dove si vendono più metal detector», ride un contadino che vive nei dintorni della reducción di Santa Ana. «Quando la gente ha cominciato a vedere strane luci notturne nella selva accompagnate da voci inquietanti, si è sparsa la voce che troppa gente andava in cerca di tesori e gli spiriti dei Guaranì li stavano difendendo. Così hanno denunciato queste presenze alla polizia che ha indagato, scoprendo un ubriaco che viveva in una capanna del cimitero e di notte metteva la radio a tutto volume».
I tesori veri invece sono i fantasmi di pietra del Sagrado Esperimento, le rovine di missioni come San Ignacio Minì, la più scenografica reducción argentina, dove angeli di pietra guardano con celeste distacco piazze silenziose, raffinati capitelli barocchi, mura mangiate dall’umidità della selva e scalinate che salgono verso il nulla, e i rumori della foresta tropicale hanno sostituito le musiche barocche dei violini. Nella missione di Loreto la luce radente dell’alba fa riemergere dall’ombra le pietre di questo sogno perduto, mangiate dall’umidità della selva e da un’onnipresente matassa di implacabili liane che ricoprono il luogo dove nacque la prima tipografia del Nuovo Mondo, che si spostava di missione in missione a seconda delle necessità.
Le reducciones non erano certo idilliaci paradisi terrestri popolati dal «buon selvaggio» di Rousseau, ma piuttosto avamposti di frontiera che ricordavano l’ossessiva geometria degli accampamenti militari romani, anche perché molti gesuiti avevano un passato militare, dove i Guaranì per sfuggire alla fame e ai bandeirantes, i cacciatori di schiavi portoghesi, rinunciavano alla propria autonomia accettando una nuova religione e una nuova vita, trasformandosi da nomadi, cacciatori e poligami, a sedentari, agricoltori e monogami. Le loro esistenze erano scandite dal rintocco delle campane che chiamavano alla liturgia e ritmavano i tempi del lavoro.
Ogni mattina colonne di Guaranì si dirigevano verso i campi guidate da un gesuita, mentre le donne tessevano e collaboravano alla semina e al raccolto in un collettivismo autoritario che sembra la versione cristiana di una comune maoista. Con una differenza fondamentale, meno di ottanta gesuiti governavano oltre centoquarantamila Guaranì senza bisogno di apparati di repressione, il massimo della pena era l’espulsione, e la fine delle reducciones, che lasciò un enorme rimpianto nei Guaranì, non avvenne per un collasso del sistema ma per un’aggressione esterna, paradossalmente causata soprattutto dal successo economico.
Al tempo dei gesuiti questa era l’area del Cono Sur dell’America Latina con la migliore qualità della vita, dove artigiani e orchestre erano in grado di competere con l’Europa e la fabbricazione di strumenti musicali raggiunse una qualità da renderli competitivi anche a Lisbona o a Madrid. Un modello alternativo incomparabilmente superiore a quello coloniale, in grado di trasmettere inaccettabili esempi agli occhi dei mercanti spagnoli e portoghesi, quasi una versione radicale della teologia della liberazione che, per quanti difetti avesse, era comunque fondato sul rispetto delle tradizioni indigene e sull’uso dell’arte come strumento di evangelizzazione. Un mondo straordinario che i Guaranì chiamavano La Tierra sin mal, quasi irreale per i suoi tempi, a tratti immerso in un’atmosfera di realismo magico degna di Gabriel García Márquez.