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Mitico Gengis Khan

Gengis Khan (ritenuto da molti il più grande comandante della storia; nel XIII secolo conquistò quasi tutta l’Asia e l’Europa orientale) – la cui memoria è stata orgogliosamente ristabilita dopo anni di oscurantismo sovietico – ha raggiunto il massimo livello di fama per l’epoca odierna, trasformandosi in una sorta di influencer post mortem, brand nazionale per eccellenza.

È testimonial di una birra, di una vodka, dà il nome a hotel di lusso e anche al nuovo aeroporto di Ulan Bator. Noto come uno dei flagelli che hanno tempestato la regione, colpevole di massacri e violenze con le sue schiere di guerrieri a cavallo, è stato in parte riabilitato dalla storiografia recente e ci viene presentato come il riunificatore di clan in perenne lotta, il creatore di uno dei sistemi di comunicazione (le stazioni di posta a cavallo) più avanzato ed efficiente dell’epoca, il garante di una seppur breve pax mongolica che garantì scambi commerciali e culturali tra Oriente e Occidente come nessuno prima di lui.


Canto di un pastore errante

Reportage - La Mongolia tenta di scrivere il suo futuro in bilico tra un passato epico e un presente turbolento
/ 01/01/2024
Amanda Ronzoni, testo e foto

«Andremo da dio, lo saluteremo e se si dimostra ospitale resteremo con lui, altrimenti risaliremo a cavallo e verremo via». (Proverbio mongolo)

La musica mongola ha il ritmo di una galoppata furiosa attraverso le praterie spazzate dal vento. Nei canti di queste genti, le voci sono per noi stridenti da ascoltare, e ipnotiche come solo il khöömii (canto di gola) sa esserlo: eco di rapaci, o di animali in fuga nelle steppe, nitriti di cavalli che, per i mongoli, sono i migliori amici dell’uomo, il fluire delle acque, l’impeto del vento e il ruggire del cielo in tempesta.

La voce della natura

La Mongolia è uno di quegli angoli di mondo in cui la Natura parla ancora con la sua voce. E da tempi immemorabili ha trovato orecchie pronte ad ascoltarla. Hooh Tenger (il Grande Cielo Blu) era il padre celeste a cui anche Temüjin, passato alla storia come Činggis Qan (per noi Gengis Khan), faceva riferimento. Gli sciamani usavano musica e melodie per entrare in connessione con gli spiriti e mediare i loro favori per la comunità.

Dai monti dorati (gli Altaj), dai deserti, dalle steppe infinite, i canti delle innumerevoli genti che abitavano questi luoghi, in perenne movimento, senza muri né confini, giungevano tramite racconto alle orecchie lontane di chi aveva stabilito che la domus e le sue mura fossero la misura del vivere e del potere (dominus).

Leopardi, che con la mente compì viaggi straordinari senza muoversi da casa sua, ne sente parlare attraverso gli scritti del barone russo Meyendorff, colonnello dello Stato Maggiore di S.M. l’Imperatore di tutte le Russie, che nel suo Voyage D’Orenbourg à Boukhara fait en 1820 à travers les steppes qui s’étendent à l’Est de la mer d’Aral et au delà de l’ancienne Jaxartès (Viaggio da Orenburg a Bukhara effettuato nel 1820 attraverso le steppe che si estendono a est del Lago d’Aral e oltre l’antica Jaxartès) racconta dell’usanza dei pastori di quelle terre lontane di cantare storie antiche al chiaro di luna. Ci regala così uno dei suoi capolavori, un’opera la cui grandezza sta nel risuonare di elementi universali che accomunano gli uomini nonostante incolmabili distanze di spazio e tempo. La vita errante del pastore diventa il paradigma della vita travagliata di ogni essere umano, sovrastato dalla Natura magnifica e terribile. Un’eco che si amplifica vagando per il mondo, non importa a che latitudine o longitudine, ovunque si trovi un uomo che conduce al pascolo i suoi animali.

Nella prefazione alla Storia segreta dei Mongoli (a cura di Sergej Kozin), Fosco Maraini scrive: «L’Asia centrale è un oceano di terra le cui onde, nei secoli, sono stati popoli». E così ancora oggi la Mongolia è un puzzle impegnativo di genti, usanze, lingue e religioni.

Confini di cemento

La parola «confini» è sempre andata stretta alle popolazioni mongole. Per secoli questa vasta terra è stata dominata da imperi nomadi e ancora oggi i blocchi di appartamenti in cemento armato, stile sovietico, che dovevano segnare l’avanzata del progresso e della modernizzazione del Paese sono quanto di più fuori luogo si possa vedere, specie nei piccoli centri. Non è un Paese per sedentari.

Ancora oggi si calcola che circa un terzo della popolazione viva di pastorizia e sia dedito al nomadismo. Questo è vero soprattutto nelle regioni periferiche e remote, che hanno rappresentato per lungo tempo delle zone franche per chi come i Kazaki, i Tuva, gli Tsaatan, si spostavano con le loro tende (ger o yurta) incuranti dei confini nazionali, seguendo gli animali e adattandosi alle condizioni meteorologiche, prima di restare intrappolati dalle politiche interne di Cina e Russia che hanno imposto regole ferree sulla circolazione di uomini e beni.

Province come tribù

Delle 21 provincie (aimag, «tribù») che compongono la Mongolia, il Bayan-Ôlgij è quella più occidentale, incuneata tra la Russia a nord e la Cina a sud. Sfiora per poco, meno di 40 km, il Kazakistan, tenuto a debita distanza da acrobazie di geopolitica. A partire dalla metà del XIX secolo, vi confluirono moltissime famiglie di nomadi kazaki che dovettero scegliere tra la sedentarizzazione nei territori controllati dalle due superpotenze, oppure di migrare in Mongolia per continuare a vivere di pastorizia e attività tradizionali. Oggi l’88 per cento della popolazione della provincia è di origine kazaka e quindi la regione è a prevalenza musulmana.

L’aimag di Bayan-Ôlgij è circondato da montagne imponenti, dove nei millenni i capi dei popoli che si spostavano tra Oriente e Occidente venivano sepolti nei mirabili kurgan, tumuli di pietre che, imitando le cime dei monti, si avvicinano al Cielo. Il paesaggio naturale, qui maestoso e incombente, reca poche tracce dei passaggi umani e della loro velleità di memoria. Ci sono luoghi in cui si ha l’impressione di poter sentire respirare l’Universo. Questo è uno di quelli.

Aspre condizioni

Le condizioni climatiche sono aspre: freddo intenso d’inverno, soprattutto in prossimità dei rilievi, e caldo afoso d’estate. Gli allevatori, con i loro animali, si spostano ciclicamente dai pascoli estivi a quelli invernali. Yak, pecore dal vello pregiato, cavalli, cammelli, uomini e cani. Cercano acqua e erba fresca, riparo dal caldo, dal freddo e da eventi estremi che qui hanno un nome preciso: zud. Ce ne sono di diversi tipi, tra cui il khar (nero) zud, determinato da mancanza di neve con successiva scarsità di acqua e cibo, e lo tsagaan (bianco) zud, portato da nevicate abbondanti e gelo che mettono parimenti a repentaglio la vita di bestie e uomini. Sono fenomeni abituali e ciclici, ma ultimamente il loro impatto sui nomadi è più alto a causa dell’inasprimento dei cambiamenti climatici da un lato e da un allevamento più intensivo rispetto agli standard tradizionali (aumento nella richiesta di carne e lana) dall’altro.

Cavalieri con l’aquila al braccio

Si dice che alcuni pastori kazaki cominciarono a praticare la caccia con le aquile per sopperire ai periodi di magra con il bestiame, integrando i proventi familiari con la vendita delle pelli degli animali catturati grazie all’alleanza con questi nobili rapaci. Quando le famiglie tornavano dai pascoli alle dimore invernali, con la prima neve, gli uomini si preparavano per la caccia. Oggi si calcola che siano meno di un centinaio i Burkitshi (cacciatori con le aquile) che mantengono viva questa tradizione.

Eppure esiste un Festival delle aquile che sta riscuotendo sempre più attenzione, sia localmente sia all’estero. L’evento ufficiale si tiene annualmente a Ôlgij, capoluogo dell’aimag, a inizio ottobre. Ci sono poi eventi minori e locali, sia all’apertura che alla chiusura del periodo della caccia. Nato probabilmente come celebrazione di questa pratica, che qualcuno, manco a dirlo, fa risalire ai tempi di Gengis Khan, si inquadra nell’amore tipico dei popoli della steppa per i ritrovi «sportivi» che hanno come protagonisti abilità equestri, lotta, tiro con l’arco, passione che si coagula nell’annuale festa del Naadam. Anche nella Storia segreta dei Mongoli si fa menzione di questi momenti di svago, che sancivano periodi di pace, alleanza tra clan e tribù, affatto dissimili dai nostri giochi panellenistici.

I cavalieri arrivano fin dalla mattina presto, solenni, con le aquile al braccio, bardati con le loro pellicce migliori. I cavalli hanno finiture ricercate e sembrano consapevoli dell’importanza del loro ruolo. Nonostante paragonati a razze di altre latitudini possano sembrare rozzi e primitivi, si muovono in totale armonia con il territorio circostante e questo conferisce loro una grazia innata. Cavaliere e cavallo sono una cosa sola. C’è un senso di compiaciuta vanteria tra i Burkitshi che si aggirano agghindati e si concedono agli obiettivi dei turisti e dei locali con generosità. Lo spettacolo è intenso e richiama le principali abilità di un cacciatore che deve dimostrare il suo rapporto stretto con l’aquila, di cui è tenuto a prendersi amorevole cura e con cui sviluppa un legame speciale, così come con il cavallo. I tre diventano un’unica figura mitologica.

I turisti partecipano con entusiasmo, almeno fino a quando il freddo non li vince e le schede delle macchine fotografiche non sono piene. Fino all’ultimo restano i locali, entusiasti, che inneggiano ai vincitori. Nell’ultima edizione, 2023, ha vinto (di nuovo) una ragazza di quattordici anni, anche questo, un segno dei tempi che cambiano.

Da tradizione a prodotto turistico

Siamo di fronte a una tradizione morente che per sopravvivere si sta modificando, trasformandosi in un prodotto culturale turistico. Il riconoscimento internazionale, ma anche locale, dei cacciatori che si sottopongono alla due giorni di eventi e gare ha presa soprattutto sui giovani che guardano sempre più a questa pratica come a una attività in grado di dar loro fama e denaro, esattamente come se si trattasse di performance sportiva. L’ironia è che gli stessi cacciatori distinguono tra veri e fake, ma senza giudicare. I puristi dicono che l’evento abbia perso di autenticità, ma nel 2024 forse è bene anche chiedersi che senso abbia pensare alle tradizioni e alle culture come entità immutabili. Soprattutto in tempi in cui il turismo, come voce dell’economia, può fare molto per le comunità locali.

Chissà cosa penserebbe di tutto questo Gengis Khan e cosa cantano oggi i pastori al chiaro di luna.