azione.ch
 



Roberto Pellegrini, fotografo d’arte

Primi piani - A colloquio con un professionista che ha deciso di catturare e interpretare la realtà per mestiere
/ 20/11/2023
Stefano Spinelli

Oggi intervistiamo Roberto Pellegrini, fotografo di lungo corso, cresciuto e per molto tempo attivo nel locarnese, ma ormai da qualche anno trasferitosi a Bellinzona. Pellegrini ha un lungo e ricco curriculum, fatto di svariate esperienze professionali e artistiche: non poche sono le esposizioni e le pubblicazioni al suo attivo.

Comincia a fotografare già da bambino, affascinato dal poter catturare delle immagini a partire dalla realtà. «La mia fortuna è che ho sempre saputo cosa volevo fare nella vita. L’alternativa era il disegnatore di fumetti o il disegnatore d’automobili. Però la fotografia è stata vincente». All’età di sedici anni intraprende un apprendistato come fotografo.

Grazie all’attività e ai contatti di suo padre – operatore nel campo dell’arte – comincia a frequentare con regolarità il mondo delle gallerie milanesi. Da qui nasce anche il fatto di fotografare opere d’arte, che alla fine è quello che fa oggi principalmente.

Incontra, sempre in quel periodo, Rinaldo Bianda, fondatore del VideoArt Festival e importante animatore della scena artistica locarnese. Scena che, insieme a quella milanese, frequenta con assiduità e grande interesse. Dal 1981, per quattro anni, assume il ruolo di fotografo ufficiale del Festival. Sarà questa, per lui, l’occasione di realizzare un grande numero d’intensi ritratti dei vari attori, registi, produttori. Di applicarsi, dunque, anche alla fotografia della figura umana. «Qui si fonde anche l’altra mia passione, che è quella di fotografare le persone. A fine apprendistato ero convinto di fare il fotografo di moda e sono stato a Milano, allora, da mia cugina Laura Azzurra, stilista di moda, che pubblicava pure su “Vogue”». Però, per Pellegrini, il mondo della moda è stato deludente. «Era un ambiente che non mi piaceva tantissimo, non mi attirava più di quel tanto per il tipo di persone, per i loro atteggiamenti stressati. E poi, soprattutto, era fatto di fotografi poco rispettosi verso le modelle, le ragazze». Il focus resta puntato sul mondo dell’arte, degli artisti, delle gallerie. «Milano, a quell’epoca, era davvero esplosiva, interessante. In quegli anni c’erano i galleristi, quelli veri, quelli che facevano gli interessi degli artisti. Ho decisamente frequentato di più l’ambiente artistico, di gallerie e di artisti, che era molto più sano e divertente di quello della moda. E quindi la mia strada è andata da quella parte».

È il 1983 quando apre il suo studio e diventa indipendente. Muovendosi sempre tra Milano e Locarno, conoscendo artisti, galleristi, collezionisti, Pellegrini comincia a costruirsi una clientela nel settore della fotografia di opere d’arte. E comincia pure a lavorare per l’industria, ricevendo anche mandati importanti, che gli permetteranno di acquisire l’attrezzatura necessaria per i settori in cui si sta inserendo: «Allora, se non avevi uno specifico tipo di apparecchiatura fotografica, non potevi fare quelle fotografie che richiedevano un’elevata qualità. E senza il mandato da parte di ditte di dimensioni importanti qui in Ticino, era all’inizio difficile avere un’autonomia finanziaria e comprare l’attrezzatura da studio. Non è stato facile. Oggi, con una macchina fotografica fai praticamente «tutto». Allora non era così. Mi riferisco a macchine di medio formato, Sinar. Se non avevi una Sinar non lavoravi per l’industria. E in particolar modo, anche per fotografare opere d’arte, il grande formato era importante». La formazione continua, allora, non era volta a un aggiornamento relativo ai cambiamenti tecnologici, come può essere il caso oggi. «Ritornando alla formazione, ripensandoci, è stato un continuo progredire. Perché allora non c’era la rivoluzione tecnica che abbiamo oggi, ma c’era l’esigenza di progredire, come fotografo, ampliando le proprie conoscenze per poter usare un certo tipo di apparecchi ed entrare in un certo tipo di mercato. Perché allora era determinante il formato, il tipo di pellicola o il tipo di macchina che usavi per poter garantire la qualità necessaria richiesta per determinati settori, come potevano esserlo, appunto, la riproduzione d’arte o la fotografia industriale o la fotografia d’architettura».

Tra il 1986 e il 2011 Pellegrini lavora, per un buon 50%, in qualità di indipendente con quello che diverrà il Centro di dialettologia e di etnografia e, nel contempo, con l’Ufficio dei beni culturali del Cantone, (con il quale collabora tuttora). In questi due ambiti si trova a dover fotografare una larga varietà di soggetti – oggetti d’artigianato, d’arte, d’archeologia, edifici e monumenti storici – continuando però in parallelo a lavorare per galleristi, collezionisti e artisti.

Che siano opere d’arte, oppure architetture, oggetti o persone, per Pellegrini è fondamentale dapprima osservare attentamente quel che andrà a fotografare. L’esserne coinvolto. Averne passione. Per la fotografia d’arte, ci dice, oltre a un sapere tecnico solido, è anche di grande importanza avere un buon bagaglio culturale, una conoscenza e un amore per l’arte stessa che permetta di «leggere» gli oggetti e poi tradurli con un’immagine il più possibile fedele, e che ne possa svelare, quando è il caso, anche aspetti celati. E in questo senso, afferma Pellegrini, per questo specifico settore della fotografia d’arte non ci si può improvvisare fotografi, ma risulta ineludibile la figura del professionista.

Per questo motivo – passando a un ragionamento d’ordine tecnologico – Pellegrini non percepisce l’Intelligenza Artificiale come una minaccia per il fotografo d’arte. Non si tratta, infatti, in questo settore di creare delle immagini a partire da input artificiali, ma di rilevare con esattezza la realtà per quello che è. Semmai l’IA può rappresentare un pericolo nella sfera dell’informazione, nella formazione delle coscienze. Ma questo della possibile manipolazione delle masse, è un fatto sempre esistito. L’IA non è altro che uno strumento e sta all’intelligenza dell’uomo riuscire a farne un buon uso e a evitare di diventarne vittima.

Per riassumere il proprio sentire nei confronti della tecnologia e del suo evolvere, Roberto ci cita un’aforisma di Filippo Tommaso Marinetti: «Abbiate fiducia nel progresso che ha sempre ragione anche quando ha torto perché è movimento, vita, lotta, speranza».

Una fiducia che manifesta, più in generale, nei confronti della tecnologia digitale: «A me il digitale ha sempre affascinato, anzi, la tecnologia mi affascina in ogni caso. E quindi quando ho visto che la qualità del digitale superava la qualità della pellicola, ho abbandonato la pellicola. Ma poi è stata una cosa ovvia, perché oggi è impensabile lavorare commercialmente con la pellicola. In campo artistico però è un altro discorso.

«Pellicola e digitale, due mezzi simili, ma tra di loro ben distinti». Benché per certi versi il digitale abbia facilitato la vita del fotografo, la fotografia continua a richiedere una grande padronanza dei numerosi aspetti implicati nella realizzazione di un’immagine. Padronanza che, come ci ribadisce il nostro interlocutore a conclusione dell’incontro, solo i professionisti del settore possono assicurare.