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Il cerchio del «Popolo delle pietre»
Il Cerchio Celtico è il titolo di un thriller marinaro scritto dallo svedese Björn Larsson. Un libro cult per appassionati del mondo celtico, ma anche una definizione della «nazione europea che non c’è» come hanno definito in molti, i frammenti di un poliedrico mondo celtico di cui fanno parte Scozia, Irlanda, Galles, Cornovaglia, Isola di Man, Bretagna, paesi affacciati sull’Oceano Atlantico, uniti da una lingua comune, anche se sempre meno parlata.
Per molti studiosi anche la Galizia spagnola è parte di questo universo culturale grazie a un ricco patrimonio di tradizioni e toponimi geografici legati ai miti del periodo celtico, e a un’impressionante quantità di dolmen e castro, villaggi fortificati disseminati sul territorio. Anche il nome Galizia, dal latino Callaecia, deriverebbe da quello dell’antico popolo celtico dei Callaeci, il «popolo delle pietre», anche se nel nord della Spagna nessuna lingua di origine celtica è stata parlata dall’inizio del Medioevo.
Altri mettono in dubbio le origini puramente celtiche di questo patrimonio immateriale di credenze e tradizioni, che dopo essere sopravvissuto sotto traccia per secoli è sempre più popolare tra le nuove generazioni.

Quella Spagna un po’ irlandese nella Galizia megalitica
Reportage - Laddove le evanescenti tracce dei celti si mescolano con quelle dei pellegrini che a tappe seguono il Cammino di Santiago per pregare, meditare o anche solo per farsi un selfie
Enrico Martino, testo e fotografie
Un sentiero che taglia un bosco di pini, un cavallo solitario che guarda curioso chi passa. Poi le linee dritte degli alberi si spalancano su un arco di sabbia chiuso da un muro di grandi pietre. Uno stretto passaggio porta a un piccolo promontorio dove la luce radente del tramonto scolpisce grandi cerchi di pietre, gli antichi basamenti delle grandi capanne di Castro da Barona, il più spettacolare e meno conosciuto villaggio fortificato celtico dell’intera Galizia, quasi dimenticato fino a pochi anni fa e ancora oggi meta di anime solitarie in cerca di un silenzio spezzato solo dal vento e dall’andirivieni di onde dell’Atlantico.
Una Disneyland di blogger
Un flash di fulminante bellezza minimalista che evoca una Galizia remota, diversa dal Cammino di Santiago che sempre più spesso evoca una Disneyland di blogger e consumatori di spiritualità in marcia lungo i tratturi della meseta spagnola. Sognano il momento in cui vedranno emergere da un orizzonte d’erba le grandi torri della cattedrale di Compostela, ma spesso rischiano di perdersi altre tracce che impregnano di storie una terra dove pioggia e nebbie improvvise fanno parte della vita.
Dolmen e forti di pietra, solitarie cattedrali più grandi dei villaggi accucciati ai loro piedi, porti pescherecci che non sfigurerebbero in Bretagna, ruvidi rodei di paesi, luoghi e atmosfere più atlantiche che spagnole, uniti in un improbabile ma riuscito abbraccio da un’anima celtica, apparentemente sottotraccia ma irresistibile quando il vento gonfia le rias, i fiordi che tagliano la costa come fette di torta liquida, e l’Atlantico ritrova la sua faccia spesso trucida.
L’origine del sangue celtico
Secondo il Lebor Gabàla Erenn, il Libro delle Conquiste irlandesi dell’undicesimo secolo (perché un antico manoscritto non manca mai in queste storie), tutto sarebbe iniziato quando il mitico re celtico Breogán, «Colui che ha un unico nome» in gaelico – l’antica lingua irlandese – costruì una gigantesca torre da cui i suoi figli Ith e Bile videro una terra verdissima galleggiare sull’orizzonte oltre il mare. Ne furono così stregati da decidere di raggiungerla dando inizio a una di quelle torbide saghe irlandesi costellate di morti, vendette, tradimenti, invasioni e contro-invasioni lungo un mare da sempre più strada che confine, l’Atlantico che unisce i frammenti dispersi di una nazione che non esiste, un’area celtica unita da un’identità comune ed estesa dalla Scozia all’Irlanda, dal Galles alla Bretagna di cui fa parte anche questo lembo di Spagna atlantica.
Tombe preistoriche, forti di pietra e corride di cavalli quali testimonidi un passato ancora vivo
Tale realtà sarebbe confermata a livello scientifico da una ricerca dell’Università di Oxford che ha trovato nel DNA di molti inglesi e irlandesi tracce genetiche simili a quelle della Galizia celtica.
Per altri ricercatori, invece, sarebbe poco più che una romantica invenzione per alimentare negozi stipati di simboli celtici e guide turistiche che magnificano abitanti biondi con gli occhi azzurri invece di valorizzare una realtà ancora più straordinaria, quella composta da quasi quattromila anni di preistoria che hanno lasciato un’eredità unica di castros, dal latino castrum, forti di pietra appollaiati su promontori e colline.
I «lottatori» della Rapa das Bestas
Oggi di Breogán e del suo regno perduto restano solo evanescenti tracce disseminate qua e là per la Galizia, il suo nome sulla fiancata di un camioncino che ansima sui tornanti di una stradina di montagna o i dragoni alati dell’acqua minerale Fontecelta, ma basta arrivare tra le quattro case del villaggio di Sabucedo per venire travolti, in senso quasi letterale, da un delirio di cavalli e aloitadores, i «lottatori», della Rapa das Bestas. Un rodeo casereccio celebrato ogni estate dal quindicesimo secolo in molti paesi della Galizia in onore di San Lorenzo per avere sconfitto un’epidemia di peste, ma che risale probabilmente proprio al tempo dei celti che con i cavalli avevano un rapporto particolare.
Da allora i garranos, i piccoli cavalli autoctoni che vivono allo stato brado sulle montagne, vengono sottoposti al taglio del crine di criniera e coda. Un’usanza nata per motivi pratici – verificare lo stato dei branchi dopo l’inverno – ma che a Sabucedo assume dimensioni epiche. «Questi sono gladiatori, quelli degli altri pueblos persone» filosofeggia un videomaker che non manca una rapa, mentre centinaia di cavalli e decine di aloitadores si stringono gli uni agli altri in un silenzio inquieto di uomini e bestie nello spazio ristretto del curro, un’arena circolare che rivive all’inizio di ogni estate.
In un crescendo rapidissimo di criniere, zoccoli, mani, volti contratti, corpi che volano giù dai cavalli e cavalli atterrati dagli uomini il caos apparente di Sabucedo segue in realtà regole precise a differenza di altri villaggi: mai più di tre aloitadores per un cavallo, due afferrano la testa e uno la coda, uno monta il cavallo mentre gli altri cercano di sbilanciarlo in un autentico corpo a corpo. Qualcosa che viene da molto lontano e che non lascia comunque indifferenti perché si può vivere in molti modi la Rapa: per gli antropologi è la sopravvivenza di un rituale ancestrale legato alla celebrazione del dominio dell’uomo sulla natura, candidata a Patrimonio Immateriale UNESCO, per gli animalisti un rito barbaro e crudele in cui centinaia di cavalli vengono sottoposti a un inutile stress, e per gli aloitadores è l’identità stessa di Sabucedo. «I cavalli ci uniscono, anche come comunità perché molti compiti collettivi ruotano intorno ai cavalli, parliamo sempre di quando arriverà il giorno della Rapa. È un momento speciale per tutti, i giovani lo aspettano con ansia cercando di viverlo nel miglior modo possibile, come hanno fatto i loro padri e i loro antenati». Miguel Touriño ha iniziato a nove anni, «con la prima comunione, mi sono abituato al rumore, alla tensione, mi sono unito agli aloitadores a quindici anni e continuerò fino a quando ce la farò. Certo, sono passati secoli e la sensibilità ambientale è molto cambiata ma questo è uno dei pochi luoghi in Europa dove vivono ancora cavalli in libertà. C’è un contrasto con gli animalisti perché qui c’è uno scontro, però a Sabucedo cerchiamo di rispettare i cavalli perché è la lotta tra due spiriti, quello selvaggio dei cavalli della montagna e quello altrettanto selvaggio degli abitanti di questo villaggio».
Intorno a Miguel affollati tendoni di tavole imbandite mettono in scena una surreale catena di montaggio di pulpos alla gallega appena arrivati da vicini porti pescherecci come Combarro con la sua spettacolare infilata di horreos, i tradizionali granai in pietra allineati sulla riva del mare.
I celti si materializzano di nuovo all’estremo confine meridionale della Galizia, a sud della cattedrale gotica di Tui divisa dal Portogallo dal fiume Miño che si allarga in un estuario dominato da uno di quei posti dalla bellezza stregata dove i celti amavano mettere radici. Un labirinto di pietra di basamenti di capanne circolari di un grande castro fortificato, popolato dal primo secolo avanti Cristo fino all’arrivo dei romani un paio di secoli dopo, lungo le pendici della collina di Santa Tecla, Santa Trega per i galiziani.
La valle del Miño
La valle del Miño racconta altre storie più a monte, a Ribadavia dove l’antico ghetto ebraico si riflette nel fiume Avia, o lungo la Ribeira Sacra, il «fiume sacro» dei gallegos dove stradine che emergono con fatica dall’erba alta finiscono improvvisamente davanti a un serpente d’acqua che scivola molto più in basso tra le gole del Canòn do Sil, la grande gola creata dalla confluenza del Sil e del Miño. Più a nord i celti e Santiago si dividono i paesaggi di O Cebreiro spalancati sui crinali della montagna galiziana, ai primi appartiene l’eredità culturale di un grappolo di pallozas, le capanne circolari con il tetto di paglia abitate dai contadini fino alla fine del secolo scorso, al secondo Santa Maria la Real, la chiesa più antica del Camino de Santiago.
Un’architettura romanica quasi intima che contrasta con la vertiginosa solennità della cattedrale di Mondoñedo circondata da una piazza vintage di case bianche e grigie scandite da verande che annunciano la Spagna dalle atmosfere più nordiche di A Coruña dove la Torre de Hércules, un faro romano ristrutturato nel 1788, sarebbe l’antica torre di Breogán mentre l’anima celtica riemerge da una sfilata di menhir sul mare; almeno metaforicamente perché i Menhires por la Paz sono stati realizzati nel 2001 da Manolo Paz per ricordare le centinaia di prigionieri repubblicani assassinati davanti a queste scogliere.
Celti e pellegrini
Più a sud lungo le rias della Costa da Muerte, un nome che è tutto un programma con i suoi colori freddi, dal blu al latteo a seconda del giorno e della meteoreologia, le evanescenti tracce dei celti si mescolano con quelle dei pellegrini che si fermano a meditare all’estremo lembo di terra del Cammino di Santiago, davanti all’austera bellezza del solitario faro di Finisterra, il Finis Terrae più occidentale d’Europa per i romani, dove un albero scheletrito dal vento diventa una ragnatela contro il cielo. Alcuni di loro passano sotto le lastre di pietra della Pedra dos Cadris di Muxia che, secondo una leggenda, simboleggerebbe la vela dell’imbarcazione con cui Maria sarebbe approdata su questa costa. Un evento celerato dal vicino Santuario de Santa María A Barca, e uno dei tanti esempi in cui il cristianesimo si sovrappose a culti precedenti, perché queste grandi pietre a forma di rene od osso iliaco erano in realtà un luogo di culto megalitico dai poteri taumaturgici per molte malattie: scivolare nove volte sotto le pietre, un rituale che per i cacciatori di selfie contemporanei basta ridurre a un solo passaggio, regalerebbe un’effimera salute spirituale.
Dalle ombre della sera emerge a stento anche il vicino dolmen di Axeitos, con le sue lastre di pietra dorate, l’ultimo guizzo di minimalismo estetico prima del ridondante barocco di Santiago de Compostela dove le grandi torri della cattedrale sfumano verso le celestiali immensità di un cielo ormai nero come la pece. Più in basso, dove stanno i mortali, l’ultima orchestra estudiantina della giornata ci dà dentro con chitarre e tamburi mentre una pellegrina ispirata rotea bastone e conchiglia zigzagando tra i portici di Praza do Oubradoiro che la sera svuota miracolosamente di turisti, guide e venditori di rassicuranti gadget spirituali, e un parroco in trasferta si cimenta con spericolate citazioni di Coelho, utilizzato come un profeta dell’Antico Testamento per stupire i suoi fedeli.
Una Galizia tra le tante possibili dove Breogán e Santiago hanno trovato un modo per convivere senza troppi problemi.