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Cristiani d’Oriente, un arcipelago di Chiese
Ancora oggi in Medio Oriente vivono circa sedici milioni di cristiani ma molte comunità temono di scomparire in un futuro non troppo remoto. La crescita del fondamentalismo islamico e i numerosi conflitti hanno indubbiamente accentuato le tensioni, ma non sono le sole cause di questo declino le cui ragioni variano da Paese a Paese.
I copti egiziani, la più consistente minoranza cristiana del Medio Oriente, secondo la tradizione traggono origine dalla nascita nel 49 d.C. della Chiesa di Alessandria fondata da San Marco. Per capirne la storia e le radici bisogna addentrarsi nella complicata e un po’ fumosa storia teologica cristiana e risalire al lontano anno 451 quando, dopo avere inventato gli eremiti e il monachesimo, i copti si separano da Roma rifiutando le conclusioni del concilio di Calcedonia che sanciva l’unità della natura divina e umana di Cristo.
Da allora, la parola copto prende il significato attuale, etnico in opposizione agli invasori arabi, religioso in contrasto con la religione islamica e la chiesa di Roma e linguistico perché la lingua copta discende direttamente dall’egiziano antico. Tra le più importanti chiese cristiane del Medio Oriente ci sono anche i greco-ortodossi che celebrano i propri riti in arabo e sono profondamente radicati in questo mondo e i siro-ortodossi che usano come lingua liturgica il siriaco, molto vicino all’aramaico parlato da Gesù Cristo, mentre gli armeni del Medio Oriente sono i pochi superstiti del genocidio perpetrato dai turchi durante la Prima guerra mondiale.
Tra i cattolici la più forte comunità è quella maronita del Libano nata nel quinto secolo sotto l’impulso del monaco Maro; invece i greco-cattolici, conosciuti anche come melkiti, seguono la tradizione bizantina con sacerdoti sposati nelle parrocchie di campagna e celibi nelle città.
Si pensa alle comunità cristiane orientali come a un mondo di anacoreti fuori dal tempo, isolati nei loro deserti. Invece, o forse proprio per questo, il web rivela una realtà sorprendentemente viva di siti ricchi di informazioni e scambi culturali, dalla liturgia a edificanti vite dei santi, ma anche attualità e una miniera di informazioni aggiornate.

Le pietre viventi dei copti egiziani
Reportage - Il monastero di Sant’Antonio, come altri, si trova nel bel mezzo di quel Deserto della Tebaide tanto amato dai primi eremiti
Enrico Martino, testo e foto
La striscia di asfalto taglia come un coltello uno scenario spettrale di montagne viola. Gli unici segni di vita sono il lontano blu del Mar Rosso scandito da una pipeline mobile di petroliere e uno scalcinato cartello che rassicura sull’esistenza di «Deir al Qaddis Antwân», il monastero di Sant’Antonio annidato in una terra di nessuno, evitata persino dagli ultimi pastori nomadi. «Una porta dell’Inferno più orribile di quella immaginata dalla fantasia di Dante» per Georg Schweinfurth, viaggiatore tedesco del diciannovesimo secolo, il posto perfetto, lontano dagli uomini ma più vicino a Dio, per il futuro Sant’Antonio «padre dei monaci e stella del deserto» come lo chiamavano i suoi contemporanei.
Forse era solo stanco di folle di fedeli che a quei tempi veneravano aspiranti santi e anacoreti come rockstar e così, anche se non era arrivato al punto di appollaiarsi in cima a un capitello corinzio come San Simeone, a oltre sessantadue anni se ne era andato in mezzo al deserto in cerca di disagi e privazioni, per non parlare di demoni in forma di serpenti, lupi, orsi, tori, leoni e scorpioni che secondo i biografi tormentavano le sue notti. Non era bastato neppure quello, e discepoli disposti a tutto lo avevano raggiunto anche nel bel mezzo di quel Deserto della Tebaide così amato dai primi eremiti – chiamati così proprio dal greco eremos, deserto – ma Antonio riuscì a trasformare quella bizzarra collettività in una sorta di prima comunità eremitica in cui i suoi seguaci vivevano vicini ma non insieme a lui.
Una notte senza tempo
Ancora oggi, quando gli ultimi raggi di sole muoiono nella luce azzurrina del deserto, il monaco guardiano spranga il grande portone che per secoli ha protetto Deir al-Qaddis Antwân dal resto del mondo, quando la storia scagliava contro le sue mura eserciti musulmani e razzie beduine. Una notte senza tempo avvolge le cupole degli edifici protetti da un guscio di mura color ocra che racchiudono un dedalo di stradine, chiese, mulini e ulivi. Più che un monastero sembra un villaggio-presepe autosufficiente, e proprio questo era un tempo, «ma adesso arriva tutto dal Cairo» sospira padre Zacharias che mi ha accolto con gentilezza ma visibilmente tormentato da qualcosa che gli rode dentro, fino a quando tira fuori la domanda fatale. «Non sarai per caso veneziano, uno di quelli che hanno rubato le ossa del nostro patriarca San Marco?», come se il fattaccio risalisse a pochi anni fa. In preda a un vago senso di vertigine temporale l’ho tranquillizzato sul fatto che non avevo neanche lontani parenti veneziani e lui, finalmente rilassato, mi ha portato all’antica cisterna.
La sua acqua arriva da gole bruciate da un sole che non perdona, ma da dove esattamente lo sanno solo i beduini che si tramandano la storia di una sorgente in cui avrebbe fatto il bagno la sorella di Mosé, Myriam, nei remoti tempi dell’Esodo. Padre Zacharias però di una cosa è sicuro, «Arriva da Dio, è Lui a mandarcela», aggiunge con granitica sicurezza, ma quelle che nei libri di catechismo spesso sembravano quasi fiabe un po’ irreali si trasformano in luoghi concreti.
Storie e leggende si mescolano in una narrazione epica dove tutto diventa possibile sotto una volta stellata così intensa da tagliare il respiro mentre Zacharias mi trascina verso la debole luce che filtra da una finestrella. All’interno, due monaci si affannano a preparare il pane per le comunioni sotto icone di santi vagamente minacciosi in un silenzio assoluto rotto solo dal sottofondo lontano di antiche preghiere. Sono i monaci diretti verso l’antica chiesa di Sant’Antonio per celebrare riti immutati dai primi secoli dell’era cristiana (ndr: la Pasqua dei copti egiziani avrà luogo il 16 aprile), quando da queste parti ci si ammazzava per divergenze sulla natura divina e umana di Cristo, e più prosaicamente sui rapporti di potere con l’impero bizantino.
Deir al-Qaddis Antwân
È sopravvissuto a tutto Deir al-Qaddis Antwân fondato ufficialmente nel 356 poco dopo la morte di Antonio, risorgendo ogni volta più forte, simbolico magnete di pietra per tutto l’universo religioso copto capace di attrarre ancora oggi aspiranti monaci assetati di ascetismo che in una vita precedente spesso erano intellettuali e professori universitari. «Accogliamo chiunque ma preferiamo chi ha studiato, per avere un comune sentire» spiega un altro monaco. È un universo umano molto diverso quello di oggi, rispetto a quello che popolava il monastero nel quarto secolo, eppure una continuità ininterrotta unisce questi mondi lontani, la stessa che continua ad attrarre i pellegrini che ogni giorno venerano con devozione incrollabile le spoglie del santo monaco Abuna Yostos, che li guarda impassibile da una teca di vetro.
I più devoti salgono all’alba, prima che il sole diventi implacabile, gli oltre mille gradini che portano alla grotta dove Antonio passò gli ultimi venticinque anni della sua vita. Giù in basso un sentiero incerto svanisce tra le pieghe del deserto: secondo la tradizione sarebbe quello percorso dal santo dopo che una visione gli aveva rivelato l’esistenza oltre le montagne di un altro arzillo vecchietto, o forse era solo la stanchezza di una solitudine estrema. Così si sarebbe messo in marcia per raggiungere San Paolo l’Anacoreta, considerato il primo monaco cristiano, che visse in un completo isolamento per novant’anni, vestito solo di foglie di palma e scortato da due inseparabili leoni onnipresenti nelle ingenue raffigurazioni che incantano i pellegrini arrivati – con viaggi estenuanti dai loro sperduti villaggi – a Deir Anba Bolo, il monastero di San Paolo.
Macchie di rossi e di blu colorano il monocromatico ocra di torri, cupole e mura, sono i vestiti delle donne che in lunghe file con figli e mariti si affollano in cerca di una benedizione o di un consiglio davanti ai monaci, patriarchi o novizi poco importa. I religiosi dispensano enigmatici e rassicuranti sorrisi a tutti, probabilmente per non sbilanciarsi troppo sul futuro, con l’aria che tira verso la minoranza cristiana più numerosa del Medio Oriente, e presente in Egitto dal 49 dopo Cristo, colpevole – agli occhi degli integralisti islamici più fanatici – di resistere all’Islam dal suo arrivo nel settimo secolo.
Ma chi sono i copti? Non è attraverso i luoghi o le classi sociali che si può tracciare una mappa della loro identità, ma soltanto quando, poco per volta, alla luce delle candele il «popolo copto» riempie i banchi delle chiese. Perché il vero significato della parola copto è semplicemente «egiziano» da Qibti, il nome con cui i conquistatori arabi chiamarono gli autoctoni, come testimonia la loro lingua che discende direttamente dall’egiziano antico, e ha permesso a Champollion di tradurre i primi geroglifici.
Pellegrini e fedeli
A molte centinaia di chilometri dal Mar Rosso altri pellegrini scendono da un bus blu di un improbabile New York Travel per dirigersi con passo deciso verso la chiesa di Santa Damiana. «Questo monastero nasce dalla sua vita esemplare» attacca padre Hedra attorniato da un gruppo di assistenti in riverente silenzio, mentre mi racconta con lunghe pause ispirate la vita della santa senza risparmiarmi il più insignificante particolare, mentre santi e beati mi guardano con aria più arcigna che paterna dalle pareti, forse incattiviti dagli inni sparati da amplificatori che fanno vibrare l’aria rovente del Delta del Nilo.
Gli stessi inni e la stessa fede si respirano all’ombra delle chiese affrescate dei monasteri di Wadi El-Natrun nel deserto tra Il Cairo e Alessandria. Per i copti è Shi-Hyt, la «bilancia del cuore», una regione sacra dove tra il terzo e l’ottavo secolo sorsero più di cento monasteri, oggi ne rimangono quattro dove vivono circa cinquecento monaci, San Macario, il monastero dei Siriani, San Bishoi e Baramus, il più antico. «Noi usiamo le stesse musiche, le stesse melodie e la stessa lingua degli antichi egizi, per questo siamo i loro eredi diretti» spiega con orgoglio uno dei novanta monaci di Baramus che preferisce non dire il suo nome. Qui tutto è un simbolo a partire dalla croce copta, capace di riassumere nelle sue allegorie un’intera teologia.
Questi monasteri sono, per chi sa ascoltarli, remote schegge di storia che rivelano la tormentata vita dei cristiani d’Oriente, poco conosciuta in Occidente ma che ha profondamente permeato la nostra cultura. Una storia tutt’altro che secondaria ma soprattutto una chiave differente per comprendere meglio l’inestricabile groviglio di tensioni che da sempre attanaglia tutta l’area medio-orientale. Oggi però queste «pietre viventi», come spesso sono stati chiamati i monasteri delle chiese orientali, sono angosciate dall’incubo che in un futuro non troppo remoto il cristianesimo si estingua proprio nella zona del mondo in cui nacque.
La difficile sopravvivenza
Oggi l’unico obbiettivo della Chiesa copta è sopravvivere in un Paese islamico, ma non è facile custodire e tramandare un’identità minacciata in Egitto non tanto, o non solo, da violenze quanto da una sottile ed efficace discriminazione nella vita di tutti i giorni. «Oggi per esempio è difficile passare inosservate all’Università» spiega una studentessa. «Fino a pochi anni fa la maggioranza delle ragazze musulmane non portava il velo. Oggi invece sono ostentatamente spinte a farlo. E questo sottile incrocio di moda e di obbligo spinge chi non lo fa a essere immediatamente percepita come cristiana. E non si è viste bene».
Zacharia, invece, aveva trovato lavoro presso un’impresa di proprietà di un integralista islamico. Il suo datore di lavoro si era fatto consegnare, come d’uso, la sua carta d’identità e gliela aveva restituita solo dopo molte insistenze. Con una singolare scoperta, la sua carta d’identità aveva subito una radicale trasformazione e Zacharia era diventato musulmano. È anche così che si possono cambiare i dati sulle minoranze che poi appaiono nei censimenti ufficiali. Perché nelle statistiche i copti oscillano dal cinque al quindici per cento della popolazione a seconda delle fonti, senza contare la crescente emigrazione di chi se lo può permettere, perché in Medio Oriente i numeri di una minoranza cristiana sono un soggetto potenzialmente esplosivo per gli equilibri interni.
Ufficialmente protetti dalla Costituzione e dal Governo, i copti fronteggiano una strisciante ostilità che si manifesta soprattutto con una sottile e continua discriminazione. Se nelle grandi città la situazione non è drammatica, il quadro è più complicato nelle campagne del Medio Egitto, dove i copti spesso devono praticare la propria religione in condizioni molto difficili anche se gli anni più duri sembrano essere passati. «Se i monasteri e le chiese sono forti è forte anche la fede», ripete saggiamente padre Zacharias, ma il rischio che in un futuro non troppo remoto il cristianesimo si estingua proprio dove è nato è sempre più reale.
Oggi in molti villaggi del Medio Egitto è in corso solo una guerra di decibel tra gli altoparlanti del minareto e quelli del campanile cristiano. Per ora, ma domani?