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La capitale della Repubblica Ceca e le sue radici ebraiche
Reportage - Dietro le sconvolgenti liste degli scomparsi scolpite sui muri della sinagoga Pinkas di Praga ci sono generazioni di rabbini, sapienti e mercanti
Enrico Martino, testo e foto
Ufficialmente la storia dice che Altneu – nome tedesco della sinagoga «Vecchio-Nuova» – si riferisce a un edificio precedente, ma gli ebrei di Praga hanno sempre saputo che il suo significato autentico è «A meno che», perché se un giorno a Gerusalemme decidessero di ricostruire il Tempio di Salomone, loro dovrebbero restituire i mattoni della più antica sinagoga ancora attiva d’Europa, mattoni arrivati fin qui per imperscrutabili vie divine direttamente da Gerusalemme.
Dietro la facciata scura e mangiata dal tempo, quasi inquietante tra le eteree architetture Art Nouveau del quartiere di Josefov, il silenzio ovatta un universo parallelo di volte gotiche e anfratti misteriosi dove sarebbero nascosti i resti del Golem, il gigante d’argilla dalla forza mostruosa. Lo aveva creato un rabbino così famoso da essere chiamato alla corte dell’imperatore Rodolfo II, Judah Loew ben Bezalel, utilizzando una formula segreta della kabbalah per proteggere gli ebrei di Praga da angherie e persecuzioni. Era finita male, però, perché il Golem, inferocito per essere costretto a lavorare il Sabbath, mise a soqquadro il quartiere ebraico, così che il rabbino fu costretto a ridurlo nuovamente a un ammasso di fango secco cambiando la parola emet, «verità», scritta sulla sua fronte, in met, «morte». Leggenda che ha ispirato il Frankenstein di Mary Shelley.
Judah Loew ben Bezalel è invece sepolto nel vicino cimitero ebraico, una città dei morti nel cuore della città dei vivi dove secoli di mancanza di spazio hanno compresso oltre dodicimila lastre tombali gotiche, rinascimentali e barocche in una surreale stratificazione a cipolla. Dalle pagine di Praga Magica di Angelo Maria Ripellino – un must per chi cerca le atmosfere inquietanti di una Praga ormai perduta –, al Cimitero di Praga di Umberto Eco che ambienta tra quelle tombe un immaginario raduno notturno di rabbini intenti a scrivere i Protocolli dei Savi di Sion per conquistare il mondo. Una storia immaginaria come il documento, che però è stata alla base di una perversa Bibbia dell’antisemitismo del Novecento.
Tutto intorno, insegne di negozi e locali rievocano la tormentata esistenza di Kafka trasformata in un’attrazione per anime belle in cerca di introversioni all included, mentre alle spalle del suo monumento trionfa l’eclettica architettura romanico-moresca della Sinagoga Spagnola, simbolo di una nuova borghesia ebraica, elemento fondamentale della Praga asburgica e della Cecoslovacchia nata dopo la Prima guerra mondiale.
Molti di loro, di questi ebrei borghesi, prima di salire sui treni della morte passarono da Terezìn, la Theresienstadt asburgica, una città-fortezza dove i nazisti avevano stipato sessantamila persone mettendo in scena un ghetto-modello, in senso letterale perché in occasione di una visita della Croce Rossa avevano persino costruito falsi negozi, docce, e utilizzato i prigionieri in condizioni migliori come attori per realizzare un documentario di propaganda, Il Führer dona un villaggio agli ebrei, reclutando un regista ebreo in cambio della salvezza, salvo deportarlo subito dopo ad Auschwitz con la moglie, per nascondere un backstage di violenza, fame e dolore sopravvissuto nelle centinaia di disegni dei bambini deportati, miracolosamente ritrovati dopo la guerra in una valigia abbandonata alla stazione di Praga.
Sono tanti i modi per raccontare una storia come questa, che riguarda tutti noi perché questo è il cuore profondo di radici che fanno dell’Europa un territorio comune. Certo le persone che lo abitavano non ci sono più, ma dietro le sconvolgenti liste degli scomparsi scolpite sui muri della sinagoga Pinkas di Praga ci sono generazioni di rabbini e sapienti, mercanti che univano il Baltico al Mediterraneo lungo la Via dell’Ambra, banchieri che finanziavano guerre e lussi di nobili e sovrani, artigiani e gente comune.
Un filo rosso di uomini e storie che si srotola fino alla Moravia sotto un cielo che ha solo grigi infiniti come confine, dove gli immaginifici rabbini svolazzanti dipinti da Chagall sono sostituiti da stormi di uccelli che sfiorano sinagoghe tornate al loro antico splendore in ghetti ormai deserti, mentre il vento d’autunno scivola sulle lapidi ricoperte di muschio di malinconici cimiteri.
Třebíč, un aggrovigliato labirinto di stradine che ricorda il villaggio ebraico del film Train de Vie, nasconde Zamosti, il primo sito ebraico Patrimonio UNESCO fuori da Israele, grazie al vertiginoso eclettismo di stili delle sue case, oltre un centinaio. In cima alla collina, oltre tremila tombe scivolano lungo il fianco di una collina boscosa, con le loro incrostazioni che raccontano una storia spezzata bruscamente dalla Seconda guerra mondiale. Una simbolica specularità all’ordinata razionalità del cimitero ebraico di Židenice a Brno dove tombe simili a templi classici parlano di una borghesia industriale e intellettuale che, anche attraverso il simbolismo architettonico, esprimeva un desiderio di integrazione, un drammatico ultimo lampo di luce prima del buio della Seconda guerra mondiale.
Contrapposizione che ritorna tra la colorata esplosione di decorazioni baroccheggianti della sinagoga di Boskovice e lo scarno funzionalismo di Villa Tugendhat progettata dal famoso architetto Ludwig Mies van der Rohe a Brno. Espressione di un mondo ebraico ormai integrato che probabilmente avrebbe fatto inorridire il venerato rabbino Shmuel Horowitz, un mistico hassidim polacco del diciottesimo secolo sepolto sulla Collina dei Rabbini di Mikulov dove, ancora oggi, fedeli di tutto il mondo lasciano fogli slavati dalla pioggia fitta di preghiere e richieste.
Per secoli Nikolsburg, il nome yiddish di Mikulov, è stata il cuore della Moravia ebraica, la «Stella di Israele» lungo la Via dell’Ambra con le sue dodici sinagoghe e le celebri yeshiva, le scuole religiose dove i futuri rabbini apprendevano il Talmud ai piedi di una cascata di case e palazzotti barocchi sotto l’imponente castello, «un pezzo d’Italia spostato in Moravia dalle mani di Dio» secondo il poeta Jan Skácel. Vienna dista poco più di ottanta chilometri, una vicinanza non solo geografica perché dalla corte imperiale sono arrivate per secoli le buone e le cattive notizie per gli ebrei della Boemia e della Moravia. Ma questa è un’altra storia.