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Stephenville, da terminal a villaggio

Reportage - Dallo status esemplare di non-luogo, anche un aeroporto può tramutarsi in teatro di pratiche comunitarie
/ 05/12/2022
Simona Dalla Valle, testo e foto

Chi non ha mai provato, trovandosi in un aeroporto, una stazione o un centro commerciale affollato, un durevole senso di alienazione? Muoversi in mezzo a centinaia, migliaia di altri corpi, e sentirsi tuttavia avvolti e travolti dalla solitudine, come se si fosse del tutto scollegati da ciò che ci circonda. È a questo insieme peculiare di spazi, creati dalla supermodernità e dalle sue pratiche contemporanee di produzione spaziale, a cui l’antropologo e filosofo Marc Augé si riferiva, in un testo del 1985, definendoli «non luoghi».

Ridotti a uno scenario dal carattere transitorio dove gli attori umani si trovano in veste di individui anonimi e con i quali non si relazionano, né si identificano in alcun senso intimo, i terminal degli aeroporti, gli ospedali, ma anche parcheggi, cinema e centri commerciali sono esempi di come certi spazi pubblici privi di azione sociale siano ridotti a luoghi desolati dove la poetica dell’abitare è assente e il suolo è inaccessibile al tatto, sostituito da cemento e superfici artificiali.

Negli ospedali sono forniti braccialetti di plastica e galosce da mettere ai piedi, nei musei viene timbrato il dorso della mano con l’inchiostro, con un accessorio o un marchio il corpo è reso testimonianza del proprio passaggio. Gli aeroporti sono forse non luoghi per eccellenza, perché una volta entrati non si ha un’identità, ma si è individui in una folla con la quale non si hanno interazioni comunitarie.

L’aeroporto è un luogo che sta tra il qui e il là; uno spazio liminale insomma, per dirla con le parole del sociologo Bruno Latour. All’ingresso avviene il controllo dell’identità e il timbro del passaporto, sono rilasciati i permessi individuali e stampate le carte d’imbarco, mentre i bagagli devono essere tenuti sempre con sé altrimenti la sicurezza li porta via e li distrugge.

Non bisogna tuttavia considerare luoghi e non-luoghi come categorie assolute che si escludono a vicenda, ma riconoscere il fatto che anche i non-luoghi hanno il potenziale per diventare luoghi. Il guasto di un ascensore, uno spazio transitorio che configura un edificio in numeri astratti, può trasformarlo in un luogo di interazione sociale se le persone intrappolate si siedono e iniziano a chiacchierare. Una conversazione nata nel buio della sala di un cinema o un ritrovo di street artist su un ponte ferroviario abbandonato sono occasioni di passaggio da non luoghi a luoghi, performance non ortodosse di incontro di vite attraverso la creazione di graffiti o il giudizio di un film.

A questo proposito vorrei ricordare un episodio vissuto in prima persona. L’elemento scatenante fu un volo turbolento dall’Italia verso Miami, dove mi aspettava una coincidenza per Città del Messico. A causa di un guasto al parabrezza, prodotto da un brusco abbassamento di quota l’aereo ebbe un atterraggio di emergenza all’aeroporto di Stephenville, nella provincia canadese del Newfoundland and Labrador.

Oltre a un nuovo aeromobile occorreva attendere che la compagnia aerea mettesse a disposizione un nuovo equipaggio, e ciò si tradusse in una lunga attesa all’interno di un terminal poco più grande di un capannone, originariamente costruito come base militare durante la seconda guerra mondiale e utilizzato per il trasporto aereo internazionale dal 1970. Più di trecento passeggeri costretti a passare nove ore in uno spazio angusto, in mano un voucher per un pasto caldo e una bevanda.

Il terminal consisteva in un’ampia sala con pochi posti a sedere, nell’angolo un’edicola e un self-service dall’aspetto stanco e dal menu limitato. Alcuni cartelloni raccontavano la storia dell’aeroporto, la cui costruzione aveva trasformato Stephenville da un villaggio agricolo abitato da 500 persone a maggioranza francofona in una città di guarnigione quasi del tutto anglofona con oltre 7mila abitanti. Nel 1941 il sito era stato chiamato Harmon Field, in onore del capitano Ernest Emery Harmon, un pioniere nella storia dell’aviazione militare degli Stati Uniti, che aveva servito con l’US Air Corps durante la prima guerra mondiale.

Da un’assistente di terra appresi che nel 1943 Stephenville fu selezionato per gli atterraggi di emergenza per i voli tra il Nord America e l’Europa. Sebbene in questi casi l’aeroporto prioritario sia quello di St John’s, in quanto il primo aeroporto che si incontra provenendo dall’Europa dopo la lunga traversata atlantica, le frequenti occasioni di maltempo rendono necessario l’atterraggio in aeroporti alternativi, come quello di Gander (dove l’11 settembre 2001 si rifugiarono 38 aerei internazionali), o Stephenville, il più occidentale dell’isola di Terranova.

A pochi metri di distanza dal punto dove mi ero sistemata, una costellazione di animali impagliati illustrava la fauna locale. L’orso bruno sembrava fissarmi negli occhi con aria famelica e mi resi conto di avere appetito anch’io. Visibilmente infastidita dal disagio dell’attesa, ma rassegnata alla sua inevitabilità, la gente iniziò ad accamparsi in ogni punto della sala. All’improvviso, tra il viavai di persone che uscivano a fumare passando dall’unica porta a cui avevano accesso, poiché nessuno era autorizzato a mettere piede sul suolo canadese, si fece largo un gruppo di musicisti. Si posizionarono sul nastro trasportatore dei bagagli e, senza dire nulla, imbracciarono chitarra e microfono e diedero avvio a un concerto di musica country. Ma non era solo musica in un aeroporto. Quello che stava accadendo era una metamorfosi, la trasformazione da non-luogo a luogo. C’era chi, sorridendo, teneva il tempo con le mani, chi tamburellava le dita sulla maniglia del trolley, i meno timidi accennarono un ballo in mezzo alla sala. Ma non era finita: a metà concerto si materializzò una fornitura di pizze fumanti sulle quali si gettò l’inevitabile calca allegra, spiritosa, galvanizzata dalla gioia della musica.

Azzarderei dunque una proposta. Ogniqualvolta si avesse la sensazione di trovarsi in un non-luogo, un esercizio interessante potrebbe essere quello di avviare una riflessione su cos’è che lo rende tale e quali iniziative si potrebbero invece intraprendere, più o meno attivamente, per renderlo un luogo, un ambiente dove si intessono interazioni.