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Tra terra e acqua

Reportage - Viaggio in barca nell’entroterra del Kerala, in India
/ 18/01/2021
Pierpaolo Di Nardo

Piccoli appezzamenti strappati all’acqua, canali che disegnano i confini di terre emerse che al ritorno del monsone saranno ancora acqua, in un gioco continuo di apparizione e scomparsa, dove la terra si offre e si nega: queste sono le backwater del Kerala.

La mia meta è uno dei luoghi più sacri e venerati dell’India: Sabarimala, sui Gathi Occidentali, dove si trova il tempio di Ayyappan, figlio di Shiva e Vishnu.

Lascio Kochi, città olandese e portoghese, a bordo di una Ambassador, vecchia auto inglese fattasi indiana. Pochi chilometri mi separano dal villaggio di Kattapuram, dov’è ormeggiata la mia barca, una kettuvalam. Da qui si snodano infinite vie d’acqua, oltre mille chilometri di canali navigabili.

La kettuvalam veniva utilizzata per trasportare i raccolti dai villaggi isolati delle lagune verso i mercati della costa. Queste imbarcazioni sono il modo migliore per immergersi nella natura dell’entroterra: solcano lagune azzurre, canali color smeraldo e villaggi addormentati in uno scenario fatto di acqua, silenzio e alberi a perdita d’occhio. Esplorare il Kerala in barca è l’unico modo per vedere dietro le quinte, per scoprire il mondo nascosto dei canali più isolati, per ascoltare le voci delle mondine con le mani nell’acqua.

Lungo la costa del Kerala, da nord verso sud, si estende la National Waterway 3, una vera e propria autostrada fluviale. Ma io, per raggiungere Sabarimala, preferisco vie d’acqua più appartate. Ho studiato il percorso e possiamo andare fino a Chenganassery, 80 chilometri a sud di Kochi, rimanendo su canali meno battuti.

Ghopi, il capitano della barca, scuote il capo appena mi vede: gli indiani dicono no con la testa quando vogliono dire sì. È un capitano senza ciurma: oltre a lui, siamo solo io e lo chef. Partiamo! Il primo giorno di navigazione, a non più di 5-6 chilometri all’ora, lo passiamo tra villaggi. Il cuoco di bordo fa un cenno al capitano e la barca si ferma davanti a un mercato: compriamo pesce, cocco, verdure e spezie, la base della cucina del Kerala. Uomini in dhoti e camicia stirata vanno con passo lento sui sentieri tra un canale e l’altro, al tramonto affrettano il passo per arrivare a casa prima del buio. Donne in sari multicolori si nascondono tra il verde delle palme.

Una luce di sole accecante invade la mia cabina e annuncia il secondo giorno di navigazione: un tuffo nelle acque del canale e sono sveglio. Scendiamo a terra in una piantagione di anacardi, ne attraversiamo una di banane, poi è la volta di un campo di riso dove si apre un viale di manghi. In uno spiazzo bambini giocano a cricket, le porte di casa sono aperte, galli e galline si rincorrono corteggiandosi, uomini discorrono di politica, ragazze lavano capelli lunghi un metro tra i fiori di loto. Riprendiamo la navigazione e siamo ad Alleppey, cuore del mondo fluviale del Kuttanad, com’è chiamata la rete di canali del Kerala. Piccole imbarcazioni lunghe e strette attendono di essere caricate con banane e riso.

La nostra kettuvalam avanza senza quasi muovere l’acqua; il modo migliore per attraversare questo mondo di terra e acqua è stabilire un collegamento, captarne i colori, gli odori, i suoni, lasciando che semi di significato mettano radici dentro di noi. Ci fermiamo in una grande mansion circondata da risaie dove incontro Prasaad. Siamo alla terza generazione: i suoi nonni cento anni fa hanno bonificato la terra, suo padre ha costruito la casa e lui ha avviato la piantagione di palme da cocco. Le mansion si trovano un metro e mezzo sotto il livello dell’acqua del lago; durante il periodo dei monsoni dighe e moderne pompe elettriche difendono i campi coltivati.

Gli abitanti del Kerala combattono una lotta continua contro la pioggia: sono marinai di terra che sudano ogni giorno per difendere i campi e tutti i giorni guardano il cielo preoccupati, scrutando le nuvole all’orizzonte. Villaggi di pescatori si susseguono per chilometri, minareti, campanili e gopuram (le torri monumentali all’ingresso dei templi indiani) si confondono con le cime delle palme incurvate dal vento. Attracchiamo ed è di nuovo sera.

Al mattino seguente un bagno di sorrisi mi butta giù dal letto. Bambini dai capelli lucidi pettinati con la riga di lato, camicia azzurra stirata e zaino in spalla mi trascinano nel cortile della scuola. Tutti in fila cantiamo l’inno nazionale indiano: Jana-gana-mana-adhinayaka… (Tu sei il dominatore delle menti di tutti…). Avanziamo verso Manalady; è una giornata di navigazione lentissima lungo canali più stretti, fatta di avanti e indietro, di incroci tra kettuvalam mentre passiamo di villaggio in villaggio. La vita si svolge sulle sponde dei canali, in apparenza semplice e in equilibrio con la natura.

Ma uno sguardo più attento scopre anche tanto duro lavoro: braccia che scaricano montagne di sabbia e mattoni da una barca, argini da tenere a bada, raccolti da mettere al sicuro prima che torni il monsone. Al tramonto attracchiamo nei pressi di un’altra mansion dove musici e luminarie ci accolgono in festa. Il matrimonio tra Poonam e Ranju sarà tra pochi giorni. La famiglia di Poonam è originaria del Kannur, un distretto più a nord lungo la costa, e stasera si balla il Theyyam (la danza di Dio), singolare rituale di possessione spiritica, a metà tra performance teatrale e danza tribale. Ci addentriamo nella notte; danze e canti narrano le storie degli dei, la polvere di curcuma e riso benedice le famiglie e gli sposi.

Navighiamo da quattro giorni ormai e il fruscio del vento tra le foglie delle palme è l’unica colonna sonora che ci accompagna. Verde ovunque. Passa un gregge di anatre seguite dal loro pastore in barca; poi solo acqua, silenzio e alberi. All’improvviso il tetto del St. Antony’s Pilgrim Centre appare in fondo al canale, segno che siamo giunti a Chenganassery. Da qui in avanti è solo montagna. Una corriera per Sabarimala ci aspetta. In tre ore di curve attraversiamo piantagioni di caucciù mentre gli altri passeggeri cantano le lodi di Ayyappan.

Chi arriva a Sabarimala dopo aver osservato quarantun giorni di austerità è considerato puro e devoto agli dei: si accede al tempio vestiti con un semplice dhoti nero, portando sulla testa due noci di cocco da offrire alla divinità. Non so se sono abbastanza puro e devoto ma intanto, su questo autobus sgangherato, mi unisco ai canti. Dopo qualche curva mi volto a guardare indietro: ai miei piedi, in un orizzonte limpido e infinito, si estende la distesa di terra e acqua che ho attraversato e che mi ha cullato per giorni.