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La violenta festa del Tinku
È certamente un legame forte quello di questo popolo con la propria terra. O forse è così radicato nelle sue montagne solo perché non ha altro che questo mondo sospeso. Un mondo dove i costumi non sono ancora stati corrotti dalla modernità. Usanze che fanno ricordare quanto forte e fiero è il popolo del Nord di Potosi, mai piegato dalla natura e neanche dagli eventi. Che ha tenuto alto il suo orgoglio anche durante il duro e violento periodo della colonizzazione spagnola, di cui si trovano ancora tracce nella festa del Tinku, che vuol dire l’incontro violento.
Quella del Tinku è una cerimonia che si svolge ogni anno nei primi giorni di maggio, quando Indios Aymara e Quechua si incamminano dagli altipiani o dalle montagne per incontrarsi nelle piazze dei paesi del Nord di Potosi. Qui, dopo essersi storditi con grandi quantità di chicha, fanno esplodere la rabbia che covano dentro e iniziano a menarsi, a tirarsi pietre, a prendersi a pugni, dando luogo a una grande rissa.
Lo scontro finisce solo quando i meno forti cadono a terra, coperti di sangue, feriti, a volte in maniera così grave da perdere la vita. Si tratta di una tradizione che deriva appunto dai tempi della colonizzazione spagnola, quando gli invasori, non invitati, vennero presi a pugni e bastonate. Ma partecipare al Tinku è anche un motivo di orgoglio per il proprio paese (o comunità), e rimanere feriti produce stima sociale: il sangue che esce dalle ferite è un altro regalo che viene fatto alla Madre Terra, un dono per mostrare la propria riconoscenza e gratitudine, un omaggio perché sia benevola con i propri figli e generosa nei raccolti.
Rimarranno nel tempo, i segni sul viso e nel corpo degli uomini che rafforzano il legame con la loro terra: cicatrici, un naso completamente storto, una bocca priva di denti. È questo il Nord di Potosi, un luogo selvaggio e allo stesso tempo accogliente, una serie infinita di montagne che si perdono a vista d’occhio abitate da un popolo orgoglioso, ma anche ospitale e fraterno, che persino agli stranieri e agli sconosciuti non fa mai mancare un sorriso seguito da un «¡Buenos días!».
Le antiche fatiche del selvaggio Nord di Potosi
Reportage - Nella Bolivia più rurale e sconosciuta, il popolo quechua ha mantenuto vive le tradizioni anche legate alla Pacha Mama, a tal punto da rievocare ancora tutti gli anni il periodo violento della colonizzazione spagnola nutrendo la terra con il proprio sangue
Luigi Baldelli, testo e fotografie
«¡Buenos días!» mi dice Juan, accompagnando il saluto con un leggero movimento della testa. Il cappello di feltro ha perso la sua forma. Le mani sono nodose e forti. Ai piedi, sandali di gomma fatti con gli pneumatici. Gli occhi scuri come il carbone e la pelle color cuoio. Partire dall’Europa per finire in Sud America e più precisamente in Bolivia, nella regione del Nord di Potosi, vuol dire fare un viaggio all’indietro nel tempo.
Nel dipartimento di Potosi, che si trova a sud della capitale La Paz ed è grande quattro volte la Lombardia, il centro abitato più famoso e turistico è certamente l’omonima Potosi, città popolosa dalle ricche miniere d’argento, già celebre ai tempi della colonizzazione spagnola. Non si trova qui, però, la vera anima boliviana; per scoprire e conoscere più a fondo la natura originaria di questo popolo e i suoi territori selvaggi, bisogna spostarsi verso il nord di questa regione, e immergersi nel cuore delle Ande boliviane, attraverso strade sterrate che si inerpicano su fino alla vetta delle montagne, a più di 4000 metri sopra il livello del mare.
Dalle valli alle vette
Un viaggio insolito, come si è detto, fuori dagli schemi e dalle rotte turistiche, ma soprattutto fuori dal tempo. Dove bisogna sapersi adattare alle condizioni climatiche, dove si dorme in piccole pensioni e dove gli spostamenti con il fuoristrada richiedono ore di terreno sconnesso e tanta pazienza. È un viaggio a scorrimento lento, che permette agli occhi di riempirsi di orizzonti qui rigogliosi, là brulli, di fronte a catene di montagne che non sembrano finire.
Nelle strette vallate o lungo i pendii, piccoli appezzamenti di terreno risplendono di un verde smeraldo, il colore del mais o del fieno che sta crescendo. La vita da queste parti è dura, la natura non concede comodità, bisogna guadagnarsi con il duro lavoro quello che la terra può offrire. Nei sentieri che costeggiano i fianchi delle montagne si intravedono donne avvolte in poncho colorati che portano al pascolo piccoli greggi di pecore. Le case fatte di fango e paglia sono sparse qua e là. Ogni tanto, ai bordi delle strade, qualche contadino si riposa, seduto su una pietra o sotto un albero.
Silenzi, sguardi e foglie di coca
In mano, Juan, tiene il sacchetto di plastica verde con le foglie di coca, che offre subito per poterle condividere. Un gesto che vuol dire tanto: tradizione, amicizia, ospitalità. Le foglie di coca vengono masticate da tutti, uomini e donne, dalla mattina alla sera. Si forma una palla di foglie che, infilata in bocca, va posta di lato, tra gengiva e guancia. Aiuta a togliere la fatica e la fame. Una tradizione che risale ai tempi degli Inca. E ogni volta, prima di iniziare il rito, si buttano alcune foglie in terra, è l’offerta alla Pacha Mama, la Madre Terra. Un’azione benevola per chiedere aiuto e protezione.
È taciturno Juan, conosce poche parole di spagnolo. La sua lingua è l’antico quechua. Ma riesce a farsi capire: è un contadino e sta andando al mercato di Acassio, uno dei piccoli paesi della zona, a comprare delle sementi per il suo campo. Ha camminato per circa quattro ore e ha ancora parecchia strada davanti. Non è mai uscito da queste valli, non ha mai visto una grande città.
Ha un’età indefinita e indica un posto lontano per dire dove si trova la sua casa. Quello con Juan è un incontro fatto di silenzi e di sguardi; quando passa un pulmino, che fa la spola tra i vari villaggi e comunità di contadini, decide di prenderlo per risparmiare tempo e fatica, ma prima di andarsene mi lascia ancora una manciata di foglie di coca e un abbraccio forte e sincero.
La sposa del villaggio
Le nuvole dense e corpose sembrano toccare le vette delle montagne. Giù in basso il Rio Caine segna il confine tra il dipartimento del Nord di Potosi e quello di Cochabamba. Di solito è maestoso e tempestoso, ma ormai anche lui soffre per i cambiamenti climatici: ha poca acqua, sembra quasi in secca, anche se è da poco finita la stagione delle piogge. Le rive sono distese di sabbia e il vento alza mulinelli di polvere.
Il viaggio nel Nord di Potosi a volte dà la sensazione che non si arrivi mai da nessuna parte. Le curve si susseguono sulle strade bianche e piene di buche, e una volta arrivati in cima a una montagna, il percorso si rituffa a piombo verso discese che sembrano non avere mai fine. I piccoli villaggi, manciate di case e prati dove pascolano le mucche, appaiono sempre all’improvviso.
Ci fermiamo in uno di questi villaggi. Davanti alla chiesa, dalla facciata azzurro celestiale, si è radunata un po’ di gente vestita a festa. Sono gli invitati di un matrimonio che aspettano gli sposi ritardatari. Dentro la chiesa, su una panca di legno, una donna da sola è assorta in preghiera. Dietro di lei, in alto, la statua di un santo la guarda severa mentre la donna getta alcune foglie di coca in terra. Tradizioni, religioni, superstizioni che sembrano incontrarsi e convivere.
Le grida dall’esterno annunciano l’arrivo della sposa. La funzione religiosa lascerà poi spazio alla festa, con balli e bevute di chicha, la bevanda alcolica di mais fermentato che, ingurgitata in grande quantità, porterà sollievo per alcune ore e forse farà dimenticare la dura vita di tutti i giorni.
Il tempo della quotidianità
Quella vita ripetitiva e scandita dalle stagioni. La semina, il raccolto, i pascoli, la protezione della Pacha Mama perché tutto vada per il meglio. Mi avevano avvertito, prima di fare questo viaggio, che dopo un po’ di tempo passato in questi luoghi si inizia a sentirsi più rilassati, si inizia a guardare il tempo come lo guardano i campesinos di queste terre, che non è quello dell’orologio, ma è più lento e tranquillo.
Calma e pace che ritrovo guardando Donna Flora. È seduta su un terrapieno e osserva la valle, le montagne e le nuvole davanti a lei mentre lavora a maglia e ascolta la radio alimentata da un piccolo pannello solare. «È bello qui, vero?» mi dice restando con lo sguardo oltre, come a cercare qualcosa che forse le ricorda la sua giovinezza. «Non è cambiato niente da quando sono nata qui, solo la strada non c’era prima».
Arriva il figlio, un marmocchio di dieci anni circa con i pantaloni rotti sulle ginocchia; le si siede accanto e inizia a toccarle le lunghe trecce nere che sbucano dal cappello di paglia. «Non so se mio figlio continuerà a fare il contadino come abbiamo fatto io e mio marito. Va a scuola e spero che continui a studiare, che diventi un meccanico o trovi un lavoro statale. È troppo dura la vita qui, è una vita di stenti. La terra è aspra, non è ricca, non è generosa». Riprende a lavorare a maglia ma fa di nuovo una pausa e, questa volta guardandomi dritto negli occhi, aggiunge: «Io però non andrò mai via da questi posti, li amo tanto. E tranquillo, se ripasserai tra dieci anni, mi troverai ancora qui».
La violenta festa del Tinku
È certamente un legame forte quello di questo popolo con la propria terra. O forse è così radicato nelle sue montagne solo perché non ha altro che questo mondo sospeso. Un mondo dove i costumi non sono ancora stati corrotti dalla modernità. Usanze che fanno ricordare quanto forte e fiero è il popolo del Nord di Potosi, mai piegato dalla natura e neanche dagli eventi. Che ha tenuto alto il suo orgoglio anche durante il duro e violento periodo della colonizzazione spagnola, di cui si trovano ancora tracce nella festa del Tinku, che vuol dire l’incontro violento.
Quella del Tinku è una cerimonia che si svolge ogni anno nei primi giorni di maggio, quando Indios Aymara e Quechua si incamminano dagli altipiani o dalle montagne per incontrarsi nelle piazze dei paesi del Nord di Potosi. Qui, dopo essersi storditi con grandi quantità di chicha, fanno esplodere la rabbia che covano dentro e iniziano a menarsi, a tirarsi pietre, a prendersi a pugni, dando luogo a una grande rissa.
Lo scontro finisce solo quando i meno forti cadono a terra, coperti di sangue, feriti, a volte in maniera così grave da perdere la vita. Si tratta di una tradizione che deriva appunto dai tempi della colonizzazione spagnola, quando gli invasori, non invitati, vennero presi a pugni e bastonate. Ma partecipare al Tinku è anche un motivo di orgoglio per il proprio paese (o comunità), e rimanere feriti produce stima sociale: il sangue che esce dalle ferite è un altro regalo che viene fatto alla Madre Terra, un dono per mostrare la propria riconoscenza e gratitudine, un omaggio perché sia benevola con i propri figli e generosa nei raccolti.
Rimarranno nel tempo, i segni sul viso e nel corpo degli uomini che rafforzano il legame con la loro terra: cicatrici, un naso completamente storto, una bocca priva di denti. È questo il Nord di Potosi, un luogo selvaggio e allo stesso tempo accogliente, una serie infinita di montagne che si perdono a vista d’occhio abitate da un popolo orgoglioso, ma anche ospitale e fraterno, che persino agli stranieri e agli sconosciuti non fa mai mancare un sorriso seguito da un «¡Buenos días!».