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L’omaggio dei musicisti norteñosal Centauro del Norte
«La mia vita è stata una tragedia» confidò a scrittori e giornalisti famosi come Jack London o John Reed, ma neppure la cacciata post mortem dal pantheon ufficiale dei protagonisti della rivoluzione riuscì minimamente a scalfire il suo mito. I suoi cantori sono da sempre i musicisti norteños, «la voce dei poveri», che sotto sdruciti cappelli Stetson immancabilmente neri o bianchi ostentano cinturoni con fibbie d’argento, stivali di lucertola e camicie dai bottoni di madreperla da cui occhieggiano trucidi tatuaggi affollati di Vergini di Guadalupe e Cristi sanguinanti. Solo loro sono capaci di incantare ancora oggi al ritmo forsennato di polke e mazurke di melodrammatici corridos, le sanguigne ballate del Messico settentrionale, un popolo di romantici smodati che ascolta estasiato, sui piazzali polverosi delle feste di paese o nelle ultime cantinas, storie quasi mai a lieto fine, popolate da donne che tradiscono, cavalli fedeli fino alla morte, e ultimamente anche da narcos, scariche di kalasnikov e rombo di elicotteri. Un repertorio in cui non potrebbe mai mancare il Centauro del Norte, come Pancho Villa era chiamato negli anni più gloriosi per la sua simbiosi con Siete Leguas, il cavallo più amato con cui aveva condiviso mirabolanti avventure.
Centro storico di Zacatecas. La statua Cerro de la Bufa, che raffigura Pancho Villa, commemora la vittoria dell’esercito rivoluzionario; a destra, in alto, Durango, monumento di Pancho Villa; sotto, Zocalo, Città del Messico.
Pancho villa, un eroe politicamente scorretto
Reportage - L’uomo e il generale che fu capace di interpretare come nessun altro la più profonda anima messicana, a cent’anni dalla sua morte
Enrico Martino, testo e foto
Basta poco per ritrovare le sue tracce tra i deserti fioriti di cactus della Sierra Madre, spazzolati da un vento rovente che si perde in ruvidi canyon popolati da villaggi fantasma e miniere perdute. È qui che bisogna cercare il general Francisco Villa, roboante nome ufficiale cui sono dedicati innumerevoli villaggi, scuole, piazze e strade del Messico, ma lui è e sarà sempre Pancho Villa per tutto il mondo, capace di interpretare come nessun altro la più profonda anima messicana.
Un’intoccabile santo laico protettore dei poveri per la maggioranza, rievocato e invocato in ogni conflitto sociale, un sanguinario bandito per altri. Un destino segnato per quel suo impasto di follia e furbizia contadina, «impresentabile» rispetto agli standard odierni del più politicamente corretto Emiliano Zapata, l’altro importante caudillo della Rivoluzione.
La più grande debolezza di Villa era il carattere incontrollabile, capace di trasformarlo in pochi istanti da simpatico buontempone a uomo pronto a sparare alla minima provocazione. Un imperatore-contadino dal potere assoluto, un analfabeta che non aveva avuto diritto a un’istruzione ma che fece di tutto per assicurarne una ai figli dei campesinos, fondando scuole ovunque passasse e proclamando: «Preferisco pagare un maestro piuttosto che un generale».
La fine di José Doroteo Arango Arámbula, il suo vero nome, fu all’altezza di una vita turbolenta. Morì nel 1923, un secolo fa, a 45 anni crivellato nella sua auto Dodge da più di quaranta colpi, incluse pallottole dum-dum utilizzate per la caccia grossa, mentre tornava da Parral dove si era ritirato a fare l’agricoltore, una vocazione che non convinceva tutti, soprattutto il governo che molti sospettarono di essere il mandante. Quanto bastava per dare la stura a trucide leggende sul suo cadavere, sostituito con un altro dopo avergli tagliato la testa, che sarebbe in possesso della società segreta Skull and Bones dell’università di Yale.
Una versione improbabile ma che non stupirebbe troppo perché i gringos non gli perdonarono mai l’invasione del territorio continentale degli Usa, il 9 marzo 1916, quando cinquecento villistas avevano saccheggiato la cittadina di Columbus nel New Mexico nonostante la debolezza di Villa di fronte a nuovi leader rivoluzionari. Per vendicare l’affronto, gli americani inviarono in Messico una «spedizione punitiva» di oltre diecimila soldati con i mezzi più moderni per l’epoca, camion, motociclette, blindati, otto aerei e persino un dirigibile. Un insuccesso clamoroso. Dopo avere vagato per oltre undici mesi tra canyon e deserti, il generale Perkins e il suo braccio destro, un ancora sconosciuto George Patton, tornarono indietro senza avere visto Pancho Villa neanche da lontano.
Non male per uno che si era guadagnato sul campo gloria e strategia militare, imparando a cavalcare e sparare fin da ragazzo tra le montagne della Sierra Madre, per poi trasformarsi in bandito dopo avere ucciso un proprietario terriero che aveva violentato la sorella, almeno secondo una delle variopinte varianti che accompagnano ogni storia del general. Sicuramente Villa inventò per primo una guerra lampo di fulminee avanzate aggirando le linee nemiche e guidando le sue truppe da un quartier generale mobile; di cui ha lasciato una descrizione impagabile John Reed: un vagone rosso con tende di chintz e peccaminose immagini femminili.
La sua carriera di rivoluzionario iniziò nel 1911 quando si unì a Francisco Madero che aveva iniziato la rivolta contro l’anziano dittatore Porfirio Diaz, così appassionato al potere da restarci per 35 anni. Villa si era distinto per un coraggio pari solo alla sua inguaribile conflittualità, compreso un tentato omicidio di Peppino Garibaldi nipote del più celebre Giuseppe e comandante di una piccola legione straniera di insorti. Perdonato e liberato da Madero, Villa fu uno dei pochi a restargli fedele quando il primo presidente del Messico rivoluzionario venne tradito e assassinato, decidendo di ricominciare la rivoluzione da El Paso con un pugno di uomini, cinque muli e due sacchi di farina.
Era l’inizio della leggendaria Division del Norte che le sue intuizioni militari, e una straordinaria capacità istintiva di approfittare delle debolezze e degli errori degli avversari, trasformarono in un formidabile strumento bellico. Un esercito pittoresco la cui sussistenza era assicurata da un’armata di soldaderas, le donne che seguivano le truppe, ma che aveva la sua forza nell’utilizzo geniale della cavalleria e soprattutto dei treni, strumento fondamentale di una guerra combattuta su grandi distanze. Il general fu anche il primo a capire l’importanza della moderna informazione, fotografi e cineoperatori seguivano l’esercito rivoluzionario su vagoni riservati, e Villa arrivò a cambiare l’ora dell’attacco perché ci fosse luce sufficiente per le riprese, facendosi in cambio pagare lautamente le esclusive dai giornali degli Stati Uniti.
Il primo interprete di successo del suo personaggio per la nascente industria cinematografica americana fu proprio lui, che in cambio di un cospicuo contratto accettò persino di indossare una scintillante uniforme completa di berretto e sciabola, ritornando però subito alla vecchia camicia kaki sbiadita e all’abituale cappello Stetson, cedendo il ruolo a una lunga sequenza di star hollywoodiane che lo sostituirono sullo schermo, da Pedro Armendàriz jr a Yul Brinner e Antonio Banderas, l’ultimo almeno per ora.
La Rivoluzione raccontata dai murales di Rivera, Siqueiros e Orozco però era una cosa seria, un’epopea di ferro e fuoco impastata di polvere, cannonate, cariche di cavalleria, eroismi e tradimenti che ha attraversato come un turbine il Messico. Sembra quasi di sentirsele alle spalle le ombre dei dorados, la cavalleria scelta della Division del Norte, dietro l’ultima curva di una pista di pietre lisciate dal passaggio di migliaia di carri che si arrampica lungo la Sierra de Mapimì. Finisce davanti a due torri in ferro che trattengono con grandi cavi d’acciaio il ponte sospeso più lungo dell’America latina, progettato nel 1898 dall’ingegnere tedesco Santiago Mingui che partecipò alla costruzione del Golden Gate a San Francisco. Oltre duecentosettanta metri di precarie assi di legno che scavalcano un canyon cupo come le nuvole che spingono il vento giù dalle montagne fino al buco nero della miniera abbandonata di Ojuela.
Il campanile del villaggio di Mapimì, dove la Rivoluzione ha lasciato i buchi delle pallottole, non è lontano e anche la Division del Norte è nata da queste parti, «Vieni, ti faccio vedere una cosa» garantisce il vecchio custode dell’Hacienda de la Loma mentre si fa largo tra fucili arrugginiti e bandi rivoluzionari incartapecoriti, fino a una lapide di marmo nero, «Qui nell’antica Hacienda de la Loma il 29 settembre 1913… il generale Francisco Villa fu nominato generale in capo della Division del Norte». Fuori, su una solitaria piazza calcinata dal sole, le ballerine dell’Espectacular circo Rivas occhieggiano da uno sbiadito manifesto, sbirciate da un paio di scimmie spelacchiate che si aggirano vicino al tendone.
Ne ha viste di storie della rivoluzione lo Stato di Durango dove Villa era nato nel 1878, probabilmente l’unico luogo al mondo dove un supermercato si può chiamare Viva Villa e ogni primo maggio la banda dei minatori sfila sotto il palco imbandierato delle autorità, vigilato da torvi judiciales, i poliziotti in divisa nera. Un contrasto incolmabile con le rare fotografie e riprese cinematografiche sgranate di fanterie contadine che avanzano incuranti dei colpi di artiglieria, grandi sombreros in testa e vecchi fucili in mano. Sono le immagini della Toma de Zacatecas, la conquista di Zacatecas, la vittoria più famosa di Villa in cui sbaragliò l’esercito governativo aprendo la strada alla conquista della capitale, celebrata sul Cerro de La Bufa, collina che domina la città dove c’è ancora chi si fa immortalare travestito da villista sotto un monumento in cui Villa sembra voler scalare il cielo insieme a Siete Leguas.
Il momento del trionfo è immortalato in una famosa fotografia in cui Villa e Zapata sono seduti fianco a fianco sulle poltrone dorate del Palacio Nacionàl, il palazzo presidenziale di Città del Messico. Un’immagine più eloquente di qualsiasi saggio in cui Zapata ostenta l’aria pensierosa del rivoluzionario tormentato che teme le seduzioni del potere, e Villa sghignazza con il sorriso soddisfatto di chi è passato dal furto di cavalli alla guida di una rivoluzione.
Trionfo apparente perché dissensi e tradimenti rispedirono presto i due verso le rispettive aree di influenza, Zapata al sud e Villa al nord. Nel palazzo sono rimaste solo le loro immagini, insieme ad aztechi, spagnoli, operai, inquisitori, Benito Juarez e Massimiliano d’Asburgo, tutti insieme nell’allegro girone infernale del grande mural di Diego Rivera. Fuori, sullo Zocalo, gigantesca piazza ombelico e riassunto dell’intero Messico, turisti, mimi, venditrici di artesanias, innamorati e ballerini travestiti da aztechi si mescolano a delegazioni di maestri e contadini che manifestano per far sapere al mondo che esistono. Anche questa è un’eredità della Rivoluzione, come il buco nel soffitto dorato della vicina cantina La Opera provocato dalle pistolettate di un iracondo Villa che aveva fatto uno spettacolare ingresso a cavallo tra specchiere e lampadari.
Il suo tempo però stava per finire, leader più pragmatici stavano impadronendosi del potere e nel 1915 le cariche di cavalleria di Villa non bastarono contro le mitragliatrici dell’esercito di Obregòn che, a Celaya, sconfisse per sempre le sue ambizioni. Per ritrovare le tracce dei suoi ultimi anni bisogna tornare al nord, a Chihuahua, nella casa-museo di Quinta Luz che ospita le memorie del jefe guerrillero raccolte da Luz Corral Villa, sposata legalmente nel 1911 e riconosciuta vedova oficial, dopo un’estenuante guerra legale con altre concorrenti, perché Villa ogni volta che desiderava una donna la sposava, senza preoccuparsi minimamente della validità dei suoi matrimoni. Il loro numero, un altro mistero insoluto, sfiorerebbe la vertiginosa cifra di settantacinque anche se dopo la sua morte solo ventitré vedove avrebbero reclamato i loro diritti.
A Quinta Luz, tra cimeli d’ogni genere c’è anche un manifesto rivelatore del senso pratico di Villa, rivolto a potenziali volontari dagli Stati Uniti. «Gringo, cavalca a sud della frontiera in cerca di oro e di gloria. Pagamenti settimanali in oro a esperti in dinamite, mitraglieri, ferrovieri». C’è anche la Dodge nera in cui venne assassinato, così tutto riporta alla sua morte e ai misteri che la circondano, in questi deserti senza confini che ognuno può riempire con la propria fantasia e con i propri sogni. Anche Pancho Villa, metà santo e metà diavolo.