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Gráinne Ní Mháille, la piratessa di Clare

Possono essere tante le ragioni per venire a Clare ma quello che attrae tutti è il mito di Gráinne Ní Mháille (in gaelico), o Granuaile O’Malley per i suoi arci-nemici inglesi, che, a capo di un clan di pirati, alla tosatura delle pecore preferiva quella delle navi dei mercanti diretti a Galway.

Il fatto ancora più straordinario è che fosse una donna che nella seconda metà del Cinquecento osava sfidare il nascente impero inglese, arrivando a risalire il Tamigi per presentarsi senza preavviso davanti a Elisabetta I, «una sua pari» come la definiva, e ottenere – Dio solo sa come – il rilascio dei suoi figli imprigionati da un governatore inglese.

Salvo poi continuare a dedicarsi alle sue attività abituali. Da allora, però, «in nome della regina», fino al 1603 quando Granuaile morì insieme al suo mondo gaelico di coloratissimi draghi che svolazzano ancora oggi sulla sua presunta tomba tra mura intrise di umidità e salsedine di un’abbazia poco più grande di una camera.

«Se ne raccontano tante di storie, persino che dentro la tomba ci fossero due asini» ride Beth Moran, una tessitrice di tweed originaria del Massachusetts. E se è successo – fa capire l’eloquente silenzio del marito seduto vicino – non è il caso di spifferarlo a uno di fuori.

«Granuaile è come San Patrizio, troppo lontana» sospira Seamus all’imbarco del piccolo traghetto, «qui la gente va in crisi se non piove per una settimana e manca l’erba per le pecore». Sono oltre duemila per centoquaranta abitanti e se potessero votare sarebbero le padrone di un’isola protetta da tre miglia marine che nei giorni di tempesta possono trasformarsi in un’invalicabile muraglia liquida.

Per domarle, quelle onde rabbiose che spumeggiano all’orizzonte, avevano costruito un faro talmente alto da venire regolarmente inghiottito da spesse coltri ovattate di nuvole, e così hanno dovuto rimpiazzarlo con un altro nella vicina Achill Island, la più grande delle piccole isole irlandesi dove la sicurezza psicologica di un piccolo ponte stradale toglie inesorabilmente quella sottile ebrezza di distacco dalla terraferma, che è l’essenza segreta di ogni isola.

Achill Island, la più grande delle piccole isole irlandesi. Costa occidentale; Sotto, Tory, piccolo villaggio occidentale, è il più importante dei 2 borghi dell’isola, dove la frequentazione non supera le 120 persone; in basso, Tory è ancora un centro della cultura gaelica; di fianco, villaggio e spiaggia di Dooniver sulla costa orientale, di Achill Island.


Da un’isola all’altra, dalle nuvole alle maree

Reportage - Un viaggio tra le terre emerse al largo delle coste dell’Irlanda, dove le tradizioni gaeliche sono tenute vive dalle leggende ancor prima che dalle genti
/ 03/07/2023
Enrico Martino, foto e testo

Reinventate ogni giorno da nuvole e maree, le isole dell’isola di Smeraldo, galleggiano sull’orizzonte di un mare umorale e spumeggiante. Ultime roccaforti di un’Irlanda altrove perduta, sono impregnate di leggende e tempeste, attrazioni fatali per anime inquiete.

Rose è arrivata a Clare Island dal Texas perché voleva visitare un posto «dove non va nessuno»; Bridges invece si è trasferita una vita fa dall’Inghilterra per amore e, da allora, arranca sulle stradine con il suo scassatissimo taxi, unico trasporto pubblico di questo fazzoletto di brughiera e di roccia, per portare ogni mattina i bambini a scuola, poi, chissà, magari per accompagnare un funerale o un parente lontano che torna.

In compenso Achill sfodera spiagge come Keel – un miraggio di sabbia e di mare dove la bassa marea riflette le grandi scogliere di Cathedral Rock e i surfisti volano al ritmo delle onde e del vento – o stupisce con i colori di Keem Strand alla fine di una strada che precipita in un mare smeraldo dove un tempo nuotavano i grandi squali elefante, innocui giganti decimati da una pesca feroce. Un passato di esistenze aspre che riaffiora tra le rovine di un villaggio di fantasmi, il Deserted Village abbandonato durante la Grande Carestia che, tra il 1845 e il 1848, provocò più di un milione di morti, e quasi altrettanti emigrati diretti verso l’America.

Più a nord, in Donegal, chi si imbarca sul piccolo traghetto diretto verso una gobba di pietra, lunga cinque chilometri e larga poco più di uno, sa quando arriva ma non quando riparte. Basta poco a scatenare un sabba di onde e di vento lungo il braccio di mare che divide la costa da Tory, Oileán Thoraigh in gaelico, isola mito dove molti parlano ancora l’antica lingua irlandese e se vanno sulla terraferma dicono «andiamo in Irlanda».

Saper sopravvivere fa parte del Dna di chi è nato nella più remota isola irlandese ancora abitata, «Che ci piaccia o no, siamo legati a Tory fino al midollo», lo dicono e lo pensano quasi tutte le duecento anime abbarbicate al loro microscopico e personale «continente» dove la luce del faro non si spegne neanche di giorno. «È successo solo nel 1884 quando gli isolani hanno ballato intorno alla Cloch na Mallacht, la Pietra dei Desideri per scongiurare l’arrivo della Wasp – una maledetta cannoniera inglese che veniva per cacciare via chi non pagava le tasse – ma la verità la sanno tutti, anche se nessuno la dice» ammicca divertito Sean Doherty con la sua faccia da folletto irlandese che per oltre quarant’anni è stato uno degli ultimi guardiani del faro.

«Qualcuno ha spento la lampada al momento buono per farla affondare, e dopo la morte di cinquantadue marinai nessun esattore si è più fatto vedere da queste parti. Allora la vita dipendeva totalmente dal tempo e dal mare, quando sono arrivato c’era solo un piccolo generatore, niente elettricità, e un altoparlante che chiamava tutti a raccolta se c’erano novità o per ballare, l’unica cosa che non mancava mai era la Guinness. Se una tempesta durava troppo tempo e restavano solo un pane e una bottiglia di latte, qualche piccolo battello si avventurava verso terra in cerca di cibo, però nel 1974, quando il Governo, dopo una tempesta che isolò Tory per otto settimane, propose agli abitanti di spostarsi sulla terraferma, oltre un centinaio rifiutò».

Sono rimasti con una durezza più tosta del granito grazie a un prete testardo, padre Diarmuid O’Peicin che guidò una sua personale battaglia contro il «Governo genocida», e a un gruppo di pittori naif che contribuirono con la loro fama alla sopravvivenza dell’isola. Ogni sera in un silenzio spezzato solo dal rombo del mare ormai nero e dallo stridio degli uccelli marini, le luci del villaggio sembrano un porto fantasma, ma dietro le finestre dell’unico pub qualche scatenata fisarmonica accompagna gli immancabili brindisi in onore di Patsy Dan Rogers morto qualche anno fa, l’ultimo rispettato «Re di Tory», erede degli antichi capiclan gaelici che risolvevano micragnose dispute su pascoli e miserevoli eredità, «perché qui la monarchia è una cosa seria, mica come la fottuta monarchia inglese» precisa chi è un po’ su di giri.

Forse anche per esorcizzare isolamento e mancanza di lavoro, molti giovani se ne vanno e la grande paura è che alla fine rimangano solo il fantasma del ciclope Balor, che con un solo occhio annientava un esercito, e la croce a forma di Tau piantata da San Columba, sbarcato a Tory con la solita compulsiva ossessione di convertire i pagani.

Solo allora, quando se ne saranno andati tutti, ma proprio tutti, usciranno dai loro nascondigli le ultime sirene che secondo la tradizione si possono catturare quando escono dal mare per pettinarsi nelle notti illuminate dalla luce del faro che scivola sul bog, la distesa di torba cupa come le nuvole gonfie di pioggia, dove un tempo nessuno si faceva sorprendere al calare della notte perché un incanto ti confondeva la mente.