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Di Terre Rare è lastricata la via verso il futuro
Sostenibilità - I Rare Earth Elements sono dappertutto, eppure ne sappiamo poco. Da dove arrivano e a che cosa servono? Chi sono i maggiori produttori? E soprattutto: quanto pesa la loro estrazione in termini di ambiente e politica internazionale?
Amanda Ronzoni, testo e foto
Quando nell’agosto del 2019 Donald Trump confermò le voci di un suo crescente interesse all’acquisto della Groenlandia, l’ilarità mondiale fu pari solo all’incredulità e allo sdegno con cui il governo danese respinse l’apparente boutade, mentre quello locale groenlandese, più diplomatico, declinava gentilmente l’offerta, derubricandola come segnale di interesse a investire sul territorio e incrementare relazioni di buon vicinato.
In realtà dietro quella che è sembrata l’ennesima pittoresca uscita dell’istrionico ormai ex presidente Usa, buttata lì con nonchalance e quasi subito lasciata annegare nel mare dei suoi numerosi e rumorosi cinguettii, si apre uno dei fronti più caldi della geopolitica mondiale, ovvero l’accesso a un gruppo di 17 elementi chimici – scandrio, ittrio e la serie dei lantanoidi – fondamentali (insieme a litio, nichel e cobalto) per lo sviluppo delle nuove tecnologie.
Più che «rari» (REE da Rare Earth Elements), andrebbero chiamati «rarefatti», perché in realtà si trovano in abbondanza nella crosta terrestre, solo in maniera diffusa e non in grandi giacimenti come per altri metalli. Il più abbondante è il cerio, mentre i più rari sono, promezio a parte, tulio e lutezio. Comunemente presenti in più di un centinaio di minerali, principalmente nella monazite e nella bastnaesite, è il processo di estrazione la nota dolente: servono quantitativi d’acqua importanti e tonnellate di roccia per ottenerne pochi chilogrammi. Inoltre, poiché alcuni dei minerali che li contengono presentano anche elementi radioattivi, gli scarti di lavorazione sono contaminanti.
La Chinese Society of Rare Earths (CSRE) ha calcolato che approssimativamente l’estrazione di una tonnellata di REE produce un quantitativo di circa 75 metri cubi di acque reflue acide e una tonnellata di rifiuti radioattivi, con uno scarto tra i 9600 e i 12mila metri cubi di rifiuti sotto forma di gas, a loro volta contenenti polveri concentrate, acido fluoridrico, anidride solforosa e acido solforico, con effetti potenzialmente nocivi sulla salute dei lavoratori e in generale delle popolazioni che si trovano a vivere a stretto contatto con i siti estrattivi.
L’altro lato della medaglia sono le particolari proprietà termoelettriche, ottiche, fotofisiche, catalitiche e magnetiche di questi elementi, che li rendono fondamentali per la produzione di materiali impiegati nel settore dell’energia, dell’automotive e dell’elettronica avanzata. Per questi scopi, leghe e metalli sono richiesti in estrema purezza e ciò comporta processi di selezione e separazione particolarmente selettivi ed efficienti, quindi costosi.
Smartphone, pannelli fotovoltaici, veicoli elettrici, turbine eoliche. La richiesta di questi minerali è in costante crescita a livello mondiale e la situazione si sta facendo di nuovo «calda». Dichiarazioni di Goldman Sachs di inizio anno, ritengono che il settore sta per compiere un salto di qualità grazie all’impulso sempre maggiore dovuto allo sviluppo delle nuove tecnologie; il presidente Biden ha promesso 37 miliardi di dollari per superare la crisi dei semiconduttori che minaccia di fermare l’industria dell’auto; la Cina, che attualmente è il primo produttore ed esportatore di REE, dal canto suo minaccia di nuovo di restringerne l’export, mentre accelera i suoi piani per l’estrazione in Mongolia, con uno sguardo ad Africa e Groenlandia; il Giappone intanto prosegue con il deep sea mining, ovvero le trivellazioni in mare aperto; e mentre in Sudamerica, in Bolivia, Chile e Argentina si guarda agli sterminati giacimenti di litio (altro materiale la cui richiesta è salita notevolmente negli ultimi decenni), si teme l’apertura di nuove miniere di REE in Brasile, il maggior produttore di niobio, cosa che metterebbe ulteriormente pressione su regioni e ambienti già pesantemente minacciati come la foresta amazzonica.
La questione ha risvolti ambientali (e sociali) importanti, specie quando si tratta di attività che prevedono dei greenfield mining project, ovvero l’apertura di nuovi siti estrattivi. Tanto che la Groenlandia ha votato contro l’ambizioso progetto per l’apertura di una nuova miniera a Kvanefjeld, che secondo alcuni nasconde il secondo deposito più grande al mondo di terre rare.
Attualmente la Cina non solo è il maggior produttore di terre rare, con l’85 per cento della produzione globale nel 2020, ma, vista la crescita del mercato interno, la previsione è che l’import di REE passerà da 60mila tonnellate nel 2021 a 80mila tonnellate l’anno nel 2030. L’indubbia posizione di dominanza che il dragone occupa da decenni gli ha permesso di sfruttare a suo vantaggio il bisogno di questi elementi da parte di altri paesi, scatenando già nel 2010 una prima «crisi delle terre rare», bloccando l’export per fini politici e minacciando lo sviluppo dell’industria high tech giapponese e americana.
Il Giappone, nel frattempo, ha intrapreso ricerche e investimenti sempre più consistenti nel deep-sea mining: grazie a un macchinario sviluppato e realizzato in casa, il JOGMEC, ha raccolto direttamente dal fondale marino, in un sito test in acque territoriali, ben 649 chili di crosta oceanica ricca di cobalto e nichel. Secondo i ricercatori l’area contiene abbastanza cobalto da soddisfare la domanda interna per i prossimi 88 anni. Purtroppo, l’impatto ambientale delle estrazioni minerarie in profondità è fortemente discutibile, in quanto va a intaccare un patrimonio di biodiversità incalcolabile ancorché ancora largamente sconosciuto. In pratica rischiamo di distruggere delle specie di cui ancora non conosciamo l’esistenza.
Ma una soluzione c’è. In realtà l’impatto ambientale delle terre rare, così come la loro importanza come arma geopolitica, può essere significativamente ridotto introducendo un modello di economia circolare, ovvero affinandone in prima battuta i processi di estrazione e purificazione, in modo da ridurre gli sprechi, oppure ricorrendo al riciclo. È nel futuro dei prodotti giunti alla fine del loro ciclo di vita che possiamo intravedere una via sostenibile, recuperando le terre rare che essi contengono.
I nostri cellulari usati, ad esempio, nascondono un piccolo tesoro. Non è un processo semplice, ma gli Stati, che non hanno queste risorse in casa e dipendono quindi dai grandi player come la Cina, si stanno attrezzando sempre più per sostenere progetti innovativi che sappiano recuperare e reimmettere in circolo questi materiali straordinari. Perché la rivoluzione verde sia davvero «green».