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L’impronta di un architetto di montagna

Il lavoro creativo e rispettoso delle tradizioni a Mogno e Fusio di Giovan Luigi Dazio, recentemente scomparso, impegnato per una vita intera a salvaguardare e recuperare la memoria costruttiva della Lavizzara
/ 05/09/2022
Mauro Giacometti

«Quello che stiamo vivendo è un periodo di transizione, per cui sono curioso di sapere quale sarà la situazione d’insieme tra vent’anni, tornare a fare un bilancio e capire com’è andata. La vita è un magnifico esercizio». Parole profetiche e ispiratrici quelle che Giovan Luigi Dazio, architetto di Fusio recentemente scomparso, ha dedicato alla salvaguardia, al recupero e alla rinascita dei luoghi della sua memoria: rustici, stalle, torbe, case in pietra e legno e persino chiese che la civiltà contadina alpina aveva eletto a rifugio dall’asprezza della montagna. Come la chiesa di Mogno, dedicata a San Giovanni Battista, nella cui piazza campeggia appunto la frase di Dazio, curioso di verificare come quella strana concezione di luogo di culto poteva essere accettata in una comunità dalle radicate tradizioni come quella del villaggio dell’alta Lavizzara.

Nato del giugno del 1947 a Fusio, nono di undici figli, Giovan Luigi Dazio, Gian per gli amici e i tanti che lo conoscevano, s’è smarcato quasi subito dall’attività prevalente del suo villaggio e della sua numerosa famiglia, l’allevamento, l’agricoltura o l’artigianato, per dedicarsi alla sua passione, la costruzione o la ricostruzione di luoghi in cui continuare o tornare ad abitare. Dotato di grande cultura e curiosità, sensibile e allo stesso tempo determinato, Dazio ha prestato la sua matita e le sue capacità professionali per molte ristrutturazioni di rustici valmaggesi in pietra, materia che sapeva trasformare con eleganza, mantenendo le caratteristiche originali di queste costruzioni del passato e (re)inserendoli con sapienza nel territorio. Spesso aggiungendo materiali altrettanto nobili della pietra e del legno, come il ferro, il vetro e l’acciaio per rendere queste case più accoglienti, sicure, e proiettarle nel futuro. Più di una sessantina gli oggetti che l’architetto di Fusio ha restaurato nel corso della sua vita, interrottasi poco prima che raggiungesse il traguardo dei 75 anni. Da tempo però aveva affidato la sua memoria e la curiosità di «capire com’è andata» alla figlia Lisa che fin da piccola come ad oggi lo seguiva nei cantieri, passo dopo passo, pietra dopo pietra, nell’ostinato lavoro di recupero del passato che aveva ispirato il padre, rimanendone a sua volta «contaminata». «Le valli ticinesi rappresentano la tradizione, la cultura e l’identità. Dobbiamo curarle, accudirle, altrimenti scompaiono», soleva dire spesso il padre.

Ma che Giovan Luigi Dazio fosse rispettoso ma non ancorato, cementato alle tradizioni, lo si è capito dopo la valanga del 25 aprile del 1986 che precipitò dal Pizzo Zucchero e che spazzò via buona parte del villaggio di Mogno e la sua chiesa seicentesca. Lui, all’epoca, era sindaco di Fusio, ma non esitò un attimo, dopo aver organizzato i soccorsi e il recupero delle macerie, a pensare al futuro di quel simbolo religioso di comunità andato completamente distrutto. Con il primo gruppo dell’Associazione Ricostruzione Chiesa di Mogno venne contattato Mario Botta, allora architetto emergente, il quale non esitò e accettò di ricostruire la chiesa di Mogno. Non lo conosceva bene, ma da allora divennero amici e Giovan Luigi Dazio difese a spada tratta le scelte stilistiche e architettoniche di Botta, compresi naturalmente i materiali (marmo di Peccia e Gneis di Riveo su tutti), con quelle striature alternate che diventarono la firma dell’architetto momò e che lo portarono a realizzare una chiesa fuori dal normale, per un paesino di montagna, ma così potente e spirituale da diventare monumento nazionale e meta di migliaia di visitatori ogni anno.

Quell’uomo così legato alle tradizioni e al rispetto dell’antico aveva accettato di compiere un balzo nel futuro per seguire la bellezza, l’armonia, regalando al villaggio distrutto di Mogno un nuovo futuro. «Conosceva questo edificio sacro come le sue tasche, in ogni angolo diremmo, in questo caso forse meglio dire in ogni ellisse, dalle fondamenta fino a su, in cima, dove all’interno il vetro permette d’innalzare lo sguardo verso il cielo, verso l’infinito. Sempre m’impressionavano le spiegazioni tecniche che sapeva dare ai numerosi visitatori, uniche direi, spiegazioni che ogni volta che entro in questo edificio cerco di ricordare, ma difficili, troppo complesse e nel contempo molto semplici», ricorda Gabriele Dazio, sindaco di Lavizzara (il nuovo Comune sorto dalla fusione dei nuclei della valle) e nipote dell’architetto di Fusio.

Passeggiando tra le strette vie di Mogno e di Fusio con la figlia Lisa, i messaggi costruttivi lasciati dal padre sono a ogni angolo. Non c’è quasi rustico, torba o stalla alle quali Giovan Luigi Dazio non abbia messo mano. E a ricordarcelo sono le targhe, appoggiate a un piedistallo di ferro, volutamente squadrato e lasciato coprire dalla ruggine, con la descrizione e gli aneddoti di luoghi, storia e modalità di recupero di ogni oggetto, a cominciare dalla torba del 1651, accanto alla chiesa, che Giovan Luigi Dazio restaurò prima che la frana distruggesse tutto il suo lavoro e che poi volle ricostruire rispettandone la secolare storia di fatica.

Da Mogno in pochi minuti d’auto si arriva a Fusio, l’ultimo villaggio della Lavizzara, prima della diga artificiale del Sambuco, costruita per la centrale idroelettrica delle Officine della Maggia. E a Fusio, nella parte più alta del villaggio, ecco forse l’opera più grande e ambiziosa anche se incompiuta di Giovan Luigi Dazio, la Cittadella situata sul nucleo di Oréi, piccola ma significativa contrada del villaggio della Lavizzara. Cominciò verso la fine degli anni ’80 con l’acquistare Villa Sofia, una residenza che con la sua torre domina il villaggio. Dazio, lavorandoci nel tempo, con le sue visioni e il suo impegno, la restaurò. Ma insieme a Villa Sofia nella Cittadella abbarbicata nella roccia vi erano una ventina di case, stalle, rustici oramai disabitati. Con gli anni acquistò anche quelli e riuscì a consolidarli e a salvarli dal peso del tempo, inserendo qualche elemento originale, come la moto d’epoca che sbuca da una stanza e si proietta idealmente verso la valle, oppure togliendo quelle appendici che erano state aggiunte, riscoprendo la roccia viva sulla quale le costruzioni poggiavano, o ancora ricostruendo l’originale tetto in ferro della torretta di Villa Sofia poggiato su una elegante corona dorata. Ma il suo obiettivo non era, come per tanti altri oggetti che aveva ristrutturato, sistemare la Cittadella e rivenderla, bensì creare un luogo d’incontro e di vita, un quartiere d’arte, cultura, un laboratorio di idee a 1300 metri di quota.

Un’eredità, quella di Gian Luigi Dazio, cioè di portare a compimento il suo sogno della Cittadella della creatività di Fusio, che ora cercherà di realizzare Lisa, affiancata dalla sorella Sofia, nel segno della continuità e degli insegnamenti del padre. C’è da trovare la formula giusta, ma l’idea di Giovan Luigi Dazio di realizzare un polo culturale sulle sue montagne e riportare vita in quella parte di nucleo, è ancora oggi quella delle figlie. L’impronta di Gian, l’architetto di montagna, non è insomma andata perduta.