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Una profetica visione precovidiana

Il seme nel cassetto - La pianta del mondo di Stefano Mancuso mette in evidenza criticità dell’inurbamento e della nostra tendenza ad ammassarci nelle città
/ 08/02/2021
Laura Di Corcia

La metropoli quale sistema sta scoppiando. Non ce la fa più. Di questo, almeno da marzo dell’anno scorso, siamo consapevoli tutti: vivere uno addosso all’altro, in spazi che diventano stretti e iper-cementificati, non funziona più e ne stiamo prendendo lentamente atto. Ma è colpa solo del Covid? O il Covid è una delle possibili conseguenze di un modo di vivere e fruire di quanto offerto dal Pianeta Terra nevrotico e, in fin dei conti, autodistruttivo?

Prendiamo per esempio La pianta del mondo, l’ultimo libro del Direttore del Laboratorio internazionale di Neurobiologia vegetale di Firenze, il botanico Stefano Mancuso, scienziato di fama internazionale e autore di svariati libri sul tema (non dimentichiamo il bellissimo Verde brillante, sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, che abbiamo recensito su «Azione» del 18 settembre 2017): fa strano leggere fra queste pagine, scritte nella ormai leggendaria epoca pre-Covid, quando ce ne andavamo ancora in giro senza mascherine illudendoci che il nostro modo di vivere non sarebbe stato messo in discussione – non sul breve termine, perlomeno – una critica puntuale e acuta sul sistema-metropoli. Scrive Mancuso: «Siamo abituati a considerarci al di fuori della natura, ma rispondiamo agli stessi fondamentali fattori che controllano l’espansione delle specie: clima, modifiche dell’ecosistema, interazioni fra specie, fattori abiotici, ecc. È molto semplice: più favorevoli sono le condizioni, maggiore sarà la diffusione di una specie e, quindi, le sue possibilità di sopravvivenza. Questa affermazione non deve sorprendere: immaginiamo che una specie, prima diffusa su tutto il pianeta, limiti per qualche motivo, conosciuto o sconosciuto, la sua presenza soltanto a piccole, delimitate zone sulla superficie terrestre. È chiaro che per questa specie i rischi aumenteranno. È molto più facile, infatti, che qualche cambiamento incompatibile con la sua sopravvivenza accada a livello locale, piuttosto che a livello globale».

Sembra quasi una profezia, ma i meno disattenti sapranno che di profezie simili gli scienziati ne avevano formulate parecchie (di recente, sul canale tv di «Focus», è andato in onda un documentario del 2007 che ipotizzava scenari legati a una pandemia come quella che stiamo vivendo, per non parlare del già discussissimo e apprezzato Spillover di David Quammen): la cosa interessante su cui fa riflettere questo libro riguarda il fatto che questo modo di vivere il Pianeta sia recente, quasi inedito. Scrive l’autore: «È un fenomeno (questo dell’inurbamento, ndr) della cui strabiliante velocità non ci rendiamo conto: nel 1959, più di due terzi delle persone in tutto il mondo viveva ancora in insediamenti rurali. Il punto più interessante dell’intera vicenda è che l’uomo, in una manciata d’anni, sta rivoluzionando i propri comportamenti atavici di specie. La conquista di nuove terre è stata la maggiore occupazione della nostra specie fin dalla sua apparizione. Poi, improvvisamente, tutto si è bloccato. Prendiamo, ad esempio, la storia dell’esplorazione spaziale: nel 1969 abbiamo messo per la prima volta piede sulla luna… e in pratica non ci siamo più tornati. Nessuno sembra avere più interesse a colonizzare nuovi territori, mentre tutti provano un’invincibile attrazione ad ammassarsi nei centri urbani».

Un nuovo modo di vivere il territorio che però porta gravissime conseguenze, come il riscaldamento globale, causato anche dal fatto che il verde nelle nostre città sta sparendo. Ben lontani i tempi in cui, come si legge nel primo capitolo del libro, durante la Rivoluzione francese venne piantata una comunità di alberi per tutta Europa: un simbolo importante, che l’inurbamento di cui parlavamo sopra ha voluto cancellare. Certo, il vivere in città grandi e complesse porta dei vantaggi a livello di PIL, crescita, reddito, ma anche benessere generale; a quale prezzo, però?

«La ragione è la stessa per cui il koala è molto più suscettibile all’estinzione di quanto non lo siano i topi: la specializzazione estrema. La trasformazione della nostra specie da generalista a specialista se da un lato è vantaggiosa in termini di accesso alle risorse, efficienza, difesa e diffusione della specie, dall’altra ci espone a un rischio terribile. Infatti, se le condizioni urbane che ci permettono di prosperare dovessero cambiare, questo avrebbe un impatto significativo sulle nostre possibilità di sopravvivenza».

Mancuso, in questo libro, che parla di storie di piante e ci racconta come esse siano molto più disposte a sacrificarsi per la comunità di quanto lo siano gli esseri umani e gli animali, riflette sulla nostra incapacità di vedere veramente questo pericolo, di capire che è qui, dietro l’angolo, e potrebbe influenzare la nostra quotidianità oggi, nel presente. Certo, lui scriveva prima del Covid: ma siamo sicuri che questa pandemia ci abbia aperto gli occhi? Ci abbia reso attenti sul rischio che comportano lo sfruttamento e la centralizzazione delle risorse, la cementificazione, le disuguaglianze sociali? Oggi più che mai, forse, farci amiche le piante e imparare da loro.