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La polvere della terra

Reportage - Il cambiamento climatico sta facendo soffrire la Lomellina, territorio perlopiù coltivato a risaie, oggi inaridito per la mancanza d’acqua
/ 18/07/2022
Luigi Baldelli, testo e foto

Le distese di campi di riso in questo periodo dell’anno qui a Mortara, nella Lomellina, territorio pavese in Pianura Padana, dovrebbero essere di un colore verde smeraldo. Il colore delle piante delle risaie che crescono sane e forti, circondate dai riflessi dell’acqua che le bagnano. Invece la vista che si presenta davanti all’obiettivo è quella di una pianura bruciata dal sole. Terreni arsi con le piantine oramai destinate a non produrre più il cereale.

La siccità causata dai cambiamenti climatici ha colpito duro da queste parti, perché la mancanza di piogge e il conseguente abbassamento dei livelli di fiumi e laghi impedisce ai canali di portare l’acqua necessaria a questi campi. L’Italia è il primo produttore di riso in Europa e nel triangolo Vercelli, Novara e Pavia, la Lomellina è quella che sta pagando in maniera più consistente queste ripercussioni del clima. Nelle tre province, dove si concentra il 70% della produzione nazionale di riso, sono circa 170mila gli ettari di terreno destinati a risaie e di questi circa la metà sono nel pavese. Ma il riso, per crescere, ha bisogno di acqua, tanta. E acqua non c’è né di questi tempi.

«L’acqua, attraverso i canali, arriva dal Po, Dora Baltea e lago Maggiore, mi spiega Luigi Ferraris, 56 anni e coltivatore di riso da più di 35, e noi qui in Lomellina siamo la parte finale di questo flusso. Prima il vercellese, poi la zona di Novara e infine noi. Ma con la scarsità di acqua le conseguenze sono che a noi ne arriva sempre meno perché è usata da chi ha i campi a monte, nelle altre due province». Il suolo sotto le scarpe è arido e mentre cammina in mezzo ai suoi campi di riso, nuvole di polvere di terra si alzano a ogni passo.

Cambiamenti climatici che hanno portato a una guerra dell’acqua con le varie province che si accusano a vicenda. «No, non è solo una guerra dell’acqua – continua a dirmi Luigi, mentre osserva le piante di riso secche e oramai di colore giallo oro – è una guerra tra poveri. E dobbiamo prendere coscienza che questa siccità, questa assenza di piogge, questo clima che sta cambiando sono segnali preoccupanti». L’acqua per irrigare è stata razionata permettendo l’allagamento delle risaie solo alcuni giorni al mese. Ma la disperazione di perdere il raccolto ha portato alcuni contadini a fare gesti al limite della legalità, come chi di notte pompa la poca acqua dai canali, acqua destinata ad altri. Oppure agricoltori che hanno preso decisioni drastiche e cioè quali campi irrigare e quali no. Una scelta di forza maggiore per cercare di salvare il salvabile dissetando un solo campo invece che due. Così si spera di far sopravvivere una parte del raccolto.

Ad oggi, secondo le stime di Confagricoltura Pavia, sicuramente il 30%-40% della produzione di riso è compromessa e se continua così si può raggiungere il 60%. Ma per molti coltivatori oramai le speranze di raccogliere il riso si sono ridotte davvero al lumicino.

Su una strada sterrata ai bordi di una grande risaia incontro Guido, un vecchio contadino di ottant’anni, il cappello di paglia per proteggersi dal sole, la schiena un po’ curva e il collo proteso in avanti mentre guarda uno dei suoi campi di riso completamente brullo: «Non ho mai visto una cosa del genere in tutta la mia vita», mi parla a voce bassa e ferma mentre le mani nodose si grattano la guancia, «magari arriva un po’ di pioggia e lo salviamo questo campo». Ma forse non ci crede neanche lui, in questa preghiera e nei suoi occhi tristi vedo una speranza disperata, una ricerca di conforto.

La siccità ha giocato con i terreni delle risaie di questa parte di pianura creando una coperta a macchia di leopardo, dove si alternano spazi verdi a spazi completamente bruciati dal sole. Ma la paura, la rabbia e la disperazione hanno raggiunto tutti i coltivatori della zona. «Cerco di non venire più a vedere i miei campi di riso, evito di passare da queste parti. Mi si stringe il cuore a vedere questi terreni totalmente bruciati dal sole» sono le prime parole che dice Elisabetta, camicia a quadri e capelli raccolti in una lunga coda. Lei è una agricoltrice che ha ereditato l’azienda dal padre, il quale a sua volta l’aveva ereditata dal nonno. 180 ettari di cui 80% andato distrutto dalla siccità.

«Prima producevo 13mila quintali di riso all’anno. Quest’anno non riuscirò ad arrivare a 3mila quintali. Sono preoccupata, arrabbiata, mi sento abbandonata. Questa terra era del mio bisnonno e mi sento in colpa a non potergli dare l’acqua di cui ha bisogno anche se lo so, non è colpa mia». Si mette le mani sui fianchi come se sentisse il peso dello sconforto sulle spalle, mentre il vento alza polvere e sabbia. «Non c’è mai stato così tanto vento in questo periodo. Anche questo secondo me fa parte dei cambiamenti climatici».

Davanti a lei una risaia grande come due campi di calcio completamente secca. «Già un mese fa ho visto che il riso era in sofferenza. Oggi posso dire che non raccoglierò nulla da questo campo» continua mentre rimane ferma come una statua di sale sotto al sole cocente e lo sguardo fisso davanti. Poi con voce agitata inizia a rivolgere domande a qualche immaginario interlocutore: «Perché non ci danno l’acqua? Perché le altre province riescono ad allagare i loro campi e salvare parte del loro raccolto? Perché l’acqua non viene distribuita in modo equo?». Domande che rimangono senza risposta o forse la risposta la dà lei stessa poco dopo. «Non sono state prese le strade giuste, il profitto ha cercato di prendere il sopravvento sulla natura e la natura si è ribellata e non ci da più l’acqua di cui abbiamo bisogno».

Ora il suono della sua voce è più calmo mentre il vento le scompiglia i capelli. «Io ho l’agricoltura nel sangue e questa terra non l’abbandono, continuerò a combattere, è la mia vita. Mio padre quando ero piccola mi portava con lui nei campi e mi diceva sempre che bisogna amare e rispettare la terra per non sentire la fatica del lavoro. Sì, dobbiamo tornare a rispettare la terra se vogliamo che lei ci rispetti». Il vento continua ad alzare la polvere ed Elisabetta continua a guardare con dispiacere e nostalgia i suoi campi aridi. Poi si passa le mani sugli occhi e con la voce tremante mi dice una bugia: «Scusami, non sto piangendo, queste lacrime sono colpa della polvere».