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Né buona né cattiva, ma utile
Ambiente - La Natura nei cambiamenti climatici in verità è la nostra miglior alleata
Loris Fedele
Di fronte a un’inondazione, al collasso disastroso di una montagna, a una valanga che fa vittime, a un ciclone che distrugge case e interi villaggi, di fronte alle cosiddette catastrofi naturali, in poche parole, siamo portati a reagire con una certa rabbia e parliamo di Natura nemica. Ci rendiamo però anche conto che la Natura non fa che reagire a sua volta alle situazioni mutevoli dello stato del mondo. Lo capiamo bene soprattutto di questi tempi, con i cambiamenti climatici: una prolungata siccità in una regione particolare, che magari è già a rischio per la sua posizione geografica, ad esempio, può innescare incendi distruttivi, e a volte incontrollabili. Ma la natura si distrugge e si riforma, sa rigenerarsi.
La natura non è né buona né cattiva, di certo non è nemica: è la Natura. Quanto all’umanità, per centinaia di anni il nostro sviluppo è avanzato a spese della natura. Solo di recente, proprio con i cambiamenti climatici, ci siamo accorti che proteggere un ambiente naturale vuol dire proteggere noi stessi e che spesso siamo noi la causa dei nostri malanni. Dobbiamo adattarci a una natura che cambia. Se ci inventiamo modelli di vita auto-portanti su vasta scala e li applichiamo, adattandoli alle diverse realtà locali, possiamo migliorare le cose. La stessa natura ci offre suggerimenti e lezioni su come proteggerla, mentre gli agenti atmosferici agiscono, il clima si guasta e la fauna selvatica si estingue. Tutto è concatenato, non si può sfuggire da questa realtà.
È accertato che una persona su tre al mondo manchi di un accesso sicuro all’acqua potabile, e quest’acqua ci arriva primariamente dalle sorgenti naturali. Più di un miliardo di persone conta sulle foreste per la propria sussistenza, eppure in certi luoghi c’è chi le distrugge. Il 75% dei poveri del mondo fa affidamento solamente sull’agricoltura per il proprio sostentamento, ma l’agricoltura dipende dalla natura: dalla bontà dei suoli, dal rifornimento d’acqua, dall’impollinazione degli insetti.
Nel 2015 ben 193 nazioni hanno sottoscritto l’Agenda 2030 per combattere l’ineguaglianza, porre fine alla povertà, preservare la salute, proteggere l’ambiente, fronteggiare il cambiamento climatico. C’è un solo elemento che sta alla base di quasi tutti questi obiettivi ed è la natura. Senza ecosistemi sani, sia marini sia terrestri, non si possono raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. Quindi la natura non è il problema, è la soluzione. È la nostra amica se sappiamo rispettarla.
Le iniziative e le ricerche nel mondo intese a promuovere la convivenza tra l’uomo e la natura con beneficio per entrambi sono innumerevoli. Le conducono scienziati sostenuti soprattutto da organizzazioni non governative, fondazioni, centri universitari, e dove possibile anche con contributi dei governi. Interventi anche molto localizzati, a volte curiosi. Per esempio è successo che nelle isole Hawaii, dove il consumo di pesce è una tradizionale ragione di vita, sia stato fatto un errore, corretto poi in maniera drastica e singolare.
Con lo sviluppo del turismo e per soddisfare la grande richiesta, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso il governo hawaiano importò numerose varietà di pesci. Tra queste c’era il piccolo bluestripe snapper, della specie Lutjanus. È molto conosciuto e molto bello, chiunque si sia immerso vicino a una barriera corallina l’ha visto. È giallo brillante sui due terzi del corpo, ha la pancia bianca e sui due lati, per tutta la lunghezza del dorso, ha quattro strisce blu. Vive dappertutto e mangia di tutto: pesciolini, polipetti, piccoli crostacei, gamberetti, alghe. Vive in grandi gruppi e si riproduce facilmente. Inutile dire che alle Hawaii diventò una specie invasiva con grave danno e perdita per le specie autoctone, tanto più che all’inizio non era considerato buono da mangiare per cui lo lasciavano stare: quando lo pescavano per caso lo buttavano oppure lo usavano come esca per prendere altri pesci. La soluzione Hawaiana per ridurre la pressione di questa specie è però passata proprio dalla tavola. Ristoranti alla moda hanno lanciato negli ultimi anni coloratissimi piatti a base di «azzannatore striato». Risultato: tutti lo servono, tutti lo mangiano, il suo numero si è ridotto, ritornano le specie autoctone e la situazione si sta riequilibrando.
Un’altra soluzione drastica e apparentemente contraddittoria tocca invece la foresta amazzonica. Anche lì ci sono specie invasive, come varie specie di palme rampicanti conosciute col nome di rattan, e le liane, che crescono più in fretta di alberi e arbusti, competono con esse per la luce e il nutrimento e si arrampicano dovunque. La deforestazione operata dall’uomo ha fatto sì che questi arrampicatori siano diventati abbondantissimi: infatti dove si disbosca senza criterio crescono per primi e rallentano la crescita delle altre specie native. Di fatto, sebbene le liane e il rattan siano una parte naturale dell’ecosistema, possono cominciare a superare le altre piante nella foresta degradata. Il guaio è che queste piante parassite non sono in grado di immagazzinare altrettanta anidride carbonica quanta gli alberi dai quali hanno rubato l’energia per crescere.
Recenti studi hanno dimostrato che il diradamento delle liane e del rattan raddoppia la crescita della biomassa nella foresta, ciò che rende il taglio di questi arrampicatori la migliore strategia per rigenerare la foresta e aumentare così la sua capacità di assorbire il CO2. Può sembrare paradossale, ma è così: per rianimare la foresta è necessario tagliare la foresta, o meglio una parte di essa e con un criterio scientifico che non danneggi la biodiversità. In certe zone si sta già operando in questo senso.
La conoscenza dello stato delle cose e delle dinamiche naturali porta a scegliere le strategie migliori per proteggere l’ambiente e al tempo stesso vivere meglio. Nel campo agroalimentare operare in armonia con la natura, quando questa è mutevole, può essere vitale. Si sa che il Centro America è un grande produttore di caffè. Ebbene è successo che alcune zone degli Stati di Oaxaca e Chiapas, in Messico, abbiano sofferto dei cambiamenti climatici e del conseguente inaridimento dei suoli. Le piantagioni di caffè non davano più un guadagno sufficiente ai contadini, che si preparavano a spostarsi altrove. Con l’aiuto di organizzazioni esterne si è ridotta e migliorata qualitativamente la piantagione, aggiungendo però sullo stesso terreno la coltivazione di agrumi, come il lime, resistenti alle nuove condizioni climatiche, dando agli agricoltori un’entrata supplementare durante l’anno. Risultato: si è bloccata una possibile emigrazione interna con soddisfazione di tutti.