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Una nuova definizione di obesità
La commissione Lancet ha stabilito precisi criteri per la diagnosi che permettono anche di distinguere la sua forma patologica e non si basano solo sull’indice di massa corporea
Vittoria Vardanega
L’obesità, di per sé, è una malattia? O è «solo» un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie come diabete, malattie cardiovascolari e alcuni tipi di cancro? Ormai è stato stabilito dalle evidenze scientifiche che l’obesità possa portare a una condizione fisica seriamente compromessa, ma allo stesso tempo molte persone tipicamente considerate obese non presentano alcun problema di salute. Non a caso negli ultimi decenni questo interrogativo è stato al centro di un dibattito controverso e polarizzante, per cui non si è ancora trovata una risposta comune a livello globale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad esempio, definisce l’obesità come «una malattia cronica complessa». In Svizzera, invece, l’obesità non è tra le patologie considerate nella Strategia nazionale sulla prevenzione delle malattie non trasmissibili (2017–2024), che include il peso tra i fattori di rischio fisiologici.
Riconoscere l’obesità come una malattia, argomenta chi è a favore, potrebbe dare una spinta alla ricerca e favorire l’accesso alle terapie per chi ne ha bisogno. Chi è contrario sostiene invece che si corra il rischio di una medicalizzazione inutile di questa condizione, soprattutto se non sono presenti problemi di salute. Fino a pochi anni fa la questione, per quanto molto dibattuta, sembrava avere poca rilevanza pratica, dal momento che le opzioni di trattamento erano principalmente due: un programma alimentare e di esercizio fisico, oppure, per i casi più severi, la chirurgia bariatrica.
Le cose sono cambiate radicalmente con l’avvento di una nuova generazione di farmaci per la perdita di peso, i noti analoghi del GLP-1 a base di semaglutide e tirzepatide. Distinguere l’obesità patologica è diventato importante per evitare un uso inappropriato di questi farmaci. Senza contare che se venissero assunti da tutte le persone tradizionalmente considerate obese, la spesa sanitaria aumenterebbe notevolmente, vista l’elevata prevalenza di questa condizione: oltre 1 miliardo di persone al mondo e circa il 12% della popolazione svizzera.
Un contributo autorevole sulla questione è arrivato di recente dalla commissione Lancet, istituita dall’omonima rivista medica e composta da 56 esperti mondiali di una vasta gamma di discipline mediche, oltre che da persone con obesità. La commissione ha stabilito nuovi criteri per la diagnosi di obesità che permettono anche di distinguere la sua forma patologica. I risultati di oltre due anni di lavoro sono stati pubblicati a gennaio, ricevendo in pochissimo tempo l’endorsement di oltre 75 organizzazioni mediche internazionali.
Finora la diagnosi di obesità si era basata prevalentemente sull’indice di massa corporea (BMI, dall’inglese body mass index), molto utilizzato anche per la sua immediatezza: per calcolarlo è sufficiente dividere il peso in chilogrammi per il quadrato dell’altezza in metri. Nelle persone di discendenza europea, il valore ottenuto indica sovrappeso se uguale o superiore a 25, e obesità se uguale o superiore a 30.
«Ma il BMI non è in grado di stabilire la presenza di massa grassa in eccesso, né indicare dove si trovi il tessuto adiposo nel corpo, un fattore chiave per stabilirne la pericolosità», commenta la dottoressa Chiara Camponovo, specialista di endocrinologia e diabetologia presso l’Ospedale regionale di Lugano. «Il grasso viscerale, che si accumula sull’addome, è associato a un’incidenza più alta di malattie cardiovascolari e diabete. Per questo misurare la circonferenza della vita può essere più indicativo del BMI».
Un atleta professionista con un BMI di 32, ad esempio, potrebbe essere considerato obeso nonostante la sua eccellente forma fisica e la ridotta quantità di massa grassa. Al contrario, un individuo con un eccesso di tessuto adiposo ma un BMI inferiore a 30 rischia di sottovalutare un possibile problema di salute. «Questo valore dovrebbe essere utilizzato solo come punto di partenza», spiega la dottoressa Camponovo. «È importante poi valutare la presenza di comorbidità, come problemi respiratori, artrosi diffusa alle ginocchia o alla spina dorsale».
È questa la direzione presa anche dalla commissione Lancet, che propone di considerare almeno un’altra misurazione corporea in aggiunta al BMI (come la circonferenza della vita, il rapporto vita-fianchi o il rapporto vita-altezza) oppure due di queste in assenza del BMI, o ancora la misurazione diretta del tessuto adiposo, oggi possibile grazie a test sofisticati ma poco accessibili per via del costo elevato.
Nel caso in cui questa prima analisi abbia riscontrato obesità, si valutano sintomi oggettivi di ridotta funzionalità degli organi o ridotta capacità di svolgere le attività quotidiane (come mangiare, lavarsi e vestirsi) per la diagnosi di obesità clinica. Tra i 18 criteri identificati dalla commissione figurano sintomi come affanno, insufficienza cardiaca dovuta al peso, dolori articolari ad anche o ginocchia, e disfunzioni in organi come fegato, cuore e reni. I soggetti che rientrano nella categoria di obesità clinica vengono considerati affetti da una patologia cronica e devono quindi ricevere un trattamento medico adeguato. In assenza di questi criteri si parla invece di obesità preclinica: il sovrappeso è un fattore di rischio per lo sviluppo futuro di malattie, ma non ha ancora causato complicazioni. La terapia farmacologica non è esclusa, ma dipende dall’entità del rischio.
«È importante capire perché il peso sia elevato, per poter meglio supportare il paziente e individuare il percorso di cure più adatto alle sue necessità», spiega la dottoressa Camponovo. «Se alla base c’è un problema strutturale o alimentare non ha senso assumere farmaci. All’inizio spesso funzionano perché riducono l’appetito, ma se subentra l’assuefazione l’aumento di peso ricomincia, causando forti delusioni. La popolarità di questi farmaci da una parte ha informato le persone e le ha spinte a chiedere aiuto più facilmente, in certi casi anche quando si erano rassegnate all’eccesso di peso», continua la dottoressa Camponovo. «Dall’altra però è importante sapere che non funzionano per tutti, e che non sono una bacchetta magica».
A volte il peso è la conseguenza di altri problemi di salute, come la policistosi ovarica, l’ipotiroidismo o malattie congenite, o ancora può essere causato dall’assunzione di corticosteroidi o farmaci psichiatrici neurolettici. Se la causa sono le cattive abitudini alimentari, queste potrebbero essere spiegate da un fattore psicologico. Per questo, conclude la dottoressa Camponovo, «lo stile di vita è un aspetto fondamentale nella gestione del peso, ma non dobbiamo ridurre tutto alla mancanza di forza di volontà. L’eccesso ponderale è un problema complesso, e banalizzarlo non è mai corretto». Le nuove linee guida della commissione Lancet potrebbero aiutare a sensibilizzare il pubblico sulle sfumature di questa condizione, e fornire un quadro condiviso a livello globale per diagnosticare l’obesità patologica. Resta da vedere se e quando verranno introdotte nella pratica clinica e nel dibattito pubblico.