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L’emotività nella malattia di Parkinson
Uno studio pilota sonda il ruolo di empatia e compassione in relazione alla qualità della vita di pazienti e famigliari
Maria Grazia Buletti
«La malattia di Parkinson è nota soprattutto perché provoca disturbi del movimento come tremori, rigidità e andatura maldestra, ma bisogna ricordare che essa comporta anche alterazioni a carico del sistema nervoso vegetativo e modifiche della capacità di elaborare le emozioni». Così esordiscono la neuroscienziata e ricercatrice USI Rosalba Morese e il direttore del centro di ricerca in Medical Humanities della Fondazione Sasso Corbaro Michele Corengia, a sottolineare l’impatto della malattia sulla dimensione emotiva relazionale di chi ne soffre: «Sono aspetti ancora poco noti che però sappiamo avere un impatto relazionale nella persona ammalata così come pure nei familiari e care giver». Su questo presupposto poggia un nuovo progetto di ricerca supportato dalla Fondazione per lo studio delle malattie neurodegenerative delle persone adulte e dell’anziano, che unisce USI, Fondazione Sasso Corbaro (centro di ricerca in Medical humanities) e Neurocentro della Svizzera italiana, nell’obiettivo di esplorare il ruolo e l’impatto dell’empatia e della compassione sulla qualità della vita dei pazienti affetti da Parkinson, dei loro famigliari e care giver. Tema a cui oggi tanti specialisti e ricercatori sono particolarmente attenti, come dimostra ad esempio l’intervento del professore di Neurologia dell’Università di Catania Mario Zàppia alla recente Convention Parkinson Corpo e anima organizzata a Torino dalla Fondazione Limpe: «La persona con malattia di Parkinson può reagire in modo abnorme agli accadimenti di vita in grado di suscitare emozioni e spesso la risultante di emozioni elaborate impropriamente è l’ansia che si può manifestare sotto forma di inquietudine o attraverso sintomi fisici come irrequietezza motoria. Altre volte, il risultato è invece un abbassamento del tono dell’umore con apatia, incapacità di provare piacere e incapacità di riconoscere le proprie emozioni (alessitimia)».
In questo contesto si situa la premessa di Rosalba Morese nell’introdurre il senso della ricerca: «La letteratura scientifica evidenzia che i pazienti affetti da Parkinson hanno punteggi bassi sui questionari che riportano il livello di empatia. Questo studio esplorativo, fra l’altro suggerito dal direttore del Neurocentro della Svizzera italiana professor Alain Kaelin, darà indicazioni su come allenare pazienti (e loro parenti-care giver) all’empatia e alla compassione, in modo da migliorare la loro qualità della vita attraverso il riconoscimento delle emozioni, nella loro identificazione e nella capacità di distinguerle anche rispetto a un’altra persona. Questo implica aderenza e collaborazione del paziente allo studio stesso, cosa certamente non facile ma favorita dall’impegno del Neurocentro della Svizzera italiana e i suoi pazienti».
Il primo costrutto da comprendere è dunque l’empatia il cui significato è così riassunto dalla nostra interlocutrice: «È un processo che attiviamo quando comprendiamo e sentiamo pensieri ed emozioni rispetto a sé e alle altre persone». Parliamo di una capacità umana che, come ogni competenza, va meticolosamente esercitata.
Lo stesso concetto è evidenziato pure dal professor Alberto Costa nella sua tesi di laurea in Psicologia Clinica e della Riabilitazione (Malattia di Parkinson: viaggio tra soma e psiche verso una qualità di vita): «Si tratta di un costante lavoro su se stessi, strumento che permette una comprensione migliore dell’altro e, quindi, un riassorbimento naturale di ogni conflitto, di ogni negatività relazionale, e che amplifica quasi sonoramente ogni gioia e ogni positività». Empatia che nel paziente affetto da Parkinson è più bassa, e per questo Morese ribadisce l’importanza dello studio: «La ricerca vuole sondare la possibilità di trovare tecniche per allenare l’empatia al fine di migliorare la qualità di vita di queste persone». Ma l’empatia va di pari passo con la compassione, al punto che si tratta di «due costrutti uniti», spiega dal canto suo Michele Corengia: «L’empatia nella sofferenza ha due componenti: quella cognitiva (riconoscere la sofferenza) e quella emotiva (connettersi con la propria sofferenza e con quella dell’altro) per “sentirla”, oltre che capirla. L’empatia relativa alla sofferenza corrisponde alle prime due fasi della compassione, la cui etimologia deriva dal latino cum (insieme) e patior (soffrire). La parola assume quindi un significato più ampio e nobile di “partecipazione alla sofferenza dell’altro”, non si limita, cioè, al normale uso nella lingua italiana con l’accezione di “avere pietà, provare commiserazione per l’altro”, ma va ben oltre».
Nell’esplicitare la correlazione fra empatia e compassione per rapporto al Parkinson, pure Corengia evidenzia l’importanza di questa ricerca per l’impatto sulla qualità di vita di queste persone: «Come anticipato, empatia e compassione sono due concetti associati: non solo “capire”, ma anche “sentire”. Gli studi di neuroscienze sociali hanno dimostrato che la compassione è un processo allenabile, suddiviso e composto da quattro fasi: l’empatia costituisce le prime due, seguite da una fase motivazionale in cui si stimola la volontà di azione (sento che voglio fare qualcosa per alleviare la sofferenza dell’altro o di me stesso), e infine da una fase comportamentale in cui si agisce per alleviare la sofferenza di sé o dell’altra persona». Lo scopo della ricerca rimane sempre quello di capire come migliorare la qualità di vita, dunque anche l’aspetto relazionale, di pazienti e famigliari, e Morese e Corengia ne spiegano i termini: «Sull’arco di sei settimane, si misureranno i livelli di empatia e compassione allenandoli settimanalmente con varie tecniche che pazienti e familiari potranno svolgere a casa in totale autonomia e libertà, seguendo delle schede già pronte. Si agirà su empatia e compassione, sul riconoscere la sofferenza e riconnettersi con essa, e al termine si misurerà come l’impatto di questi allenamenti cambierà la qualità della vita».
Infine, dal canto suo anche il professor Alain Kaelin sottolinea l’importanza di una tale ricerca peraltro da lui promossa: «Tante malattie neurologiche hanno un impatto pure negativo sulle nostre interazioni con gli altri e questo è particolarmente vero per le malattie croniche come la malattia di Parkinson. Come neurologi, ci occupiamo soprattutto dei sintomi del paziente e, di conseguenza, l’influenza della malattia sulle emozioni, le interazioni sociali, la comunicazione viene spesso un po’ dimenticata. Tuttavia, la qualità di vita dipende molto dalle nostre competenze sociali e in particolare dall’empatia con le persone che ci stanno a cuore. Con questo progetto, che è il primo di questo tipo ma certamente non l’ultimo, vogliamo sviluppare e migliorare questo importante aspetto della presa a carico dei nostri pazienti».