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Le macchine invecchiano (troppo) in fretta

La chiamano «obsolescenza programmata» e trova impreparata la maggior parte dei cittadini Ne parliamo con Mattia Corti, informatico sistemista indipendente
/ 14/04/2025
Matilde Casasopra

C’era una volta, nemmeno tanto tempo fa, un mondo nel quale quando si comperava qualcosa – una lavastoviglie piuttosto che un’automobile o un televisore – quell’oggetto, costato sacrifici e risparmi, durava se non per una vita intera, almeno per una trentina d’anni. C’era una volta, nemmeno tanto tempo fa, un mondo nel quale i conti si pagavano a fine mese allo sportello dell’ufficio postale e le ricevute venivano conservate in appositi contenitori. C’era una volta. Poi, nel giro di pochi anni, tutto ciò è stato pressocché cancellato a velocità supersonica. L’informatica – lo sapevate che il nome deriva dal francese informatique, unione delle parole information (informazione) e automatique (automatica)? – fa il suo ingresso nella vita quotidiana dei cittadini del mondo occidentale e, anno dopo anno, determina la terza rivoluzione industriale, attraverso quella che è comunemente nota come rivoluzione digitale. Ormai «digitalizzazione» è diventata la parola magica in ogni situazione e davanti a qualsivoglia problema. Ma… cosa significa digitalizzazione? Wikipedia dice che è il processo di conversione che, applicato alla misurazione di un fenomeno fisico, ne determina il passaggio dal campo dei valori continui a quello dei valori discreti. Ovvero? Un esempio può aiutare a capire meglio la situazione: le lancette di un orologio analogico si muovono con continuità (valore continuo), mentre un orologio digitale mostra il tempo con scatti successivi di numeri (valore discreto). È all’interno di questo processo di conversione dall’analogico al digitale che si è insinuata una nuova strategia, quella dell’obsolescenza programmata. La lavastoviglie, l’automobile, il computer, la televisione e il telefonino servono fino a quando il mercato non produce/propone un nuovo modello che, in teoria, risponde a nuovi bisogni. A farne le spese, visto che la strategia è ormai applicata in tutti gli ambiti, ciascuno di noi. È però il fronte tecnologico quello sul quale molti cittadini si trovano ad essere maggiormente indifesi. Tutti ormai abbiamo un telefonino, o un laptop, un computer, un tablet. Tanto per fornire, con un esempio, la dimensione del problema: a febbraio 2025, Windows 10 risulta installato su oltre il 50% dei computer desktop a livello mondiale. È a tutti questi utenti che una mattina è arrivato – o sta per arrivare – un messaggio: caro/a utente, a ottobre Windows 10 non sarà più supportato. Clicca qui: ti assistiamo nel passaggio al nostro nuovo mondo. Si clicca e… per molti ecco la sorpresa: purtroppo il tuo dispositivo non è in grado di supportare le novità del programma. Soluzione? Cambialo. A pensarci bene è normale che sia così. Se un telefonino durasse più di un x numero di anni chi ne comprerebbe uno nuovo?

Una domanda tormenta però quelli che, come me, provengono dal mondo del «c’era una volta»: non si può fare niente per evitare di acquistare nuovi dispositivi ed entrare nel circolo, davvero poco magico, dei figli dell’obsolescenza programmata? Ci siamo rivolti, per una risposta a questa e altre domande, a un informatico sistemista indipendente che, tra software, hardware, server e programmi vari ci vive da quasi una quarantina d’anni. Il suo nome è Mattia Corti, classe 1972, tra i suoi clienti ci sono piccole e medie aziende, ma anche molti over 60 che sì, hanno imparato a usare gli strumenti del mondo digitale, ma ne ignorano il funzionamento dietro le quinte.

Mattia Corti, l’ultimo ad entrare nella famiglia dell’obsolescenza programmata è stato Windows di Microsoft. Pare che, a partire da ottobre 2025, saranno in molti a dover sostituire il proprio computer. Perché?
Diciamo che nel caso di Microsoft non si tratta proprio di obsolescenza programmata, o lo è solo in parte. A partire da ottobre, infatti, Windows 10 perderà il suo supporto, cioè non beneficerà più di alcun aggiornamento, soprattutto di sicurezza, rendendo il sistema vieppiù esposto agli attacchi informatici. Così si rende necessario aggiornare il computer a Windows 11, che però per la prima volta nella storia di Microsoft chiede requisiti minimi molto esosi, in particolare un hardware non più vecchio di 7 anni. In particolare chiede il supporto per TPM 2.0, cioè uno standard di sicurezza che fornisce funzionalità crittografiche a livello hardware. Ecco perché non si può parlare proprio di obsolescenza programmata, in quanto questi requisiti diventano fondamentali, oggi, in un mondo in cui la sicurezza informatica è basilare e, come dimostra la cronaca quasi giornaliera di attacchi, panne, furti di dati eccetera, ancora piena di falle. Quindi scopriremo solo in futuro se anche Microsoft, come fa Apple da sempre, ha inserito l’obsolescenza programmata nella sua politica aziendale.

C’è qualcosa che si può fare per evitare la «rottamazione» del proprio fedele PC?
Si possono aggirare i requisiti minimi. Per un informatico l’azione non presenta particolari problemi, che esistono però per un utente normale. Un informatico è infatti in grado di aggiornare il sistema da Windows 10 a 11 quasi su qualsiasi PC, ma ad ogni avanzamento di versione – come dalla 22H3 alla 22H4 – sarà necessario eseguire l’aggiornamento manualmente. Senza contare che in futuro potrà diventare sempre più difficile bypassare i requisiti minimi. Lo stesso discorso vale per Apple: esistono patch apposite che permettono di aggiornare con successo addirittura a Sequoia (l’ultimo sistema Apple) tutti i Mac diciamo dal 2013 in su. In entrambi i casi sono però operazioni difficili per un utente normale.

Capisco e vedo che l’obsolescenza programmata non dà solo problemi: agli informatici come lei dà di che vivere, ma… che possibilità ci sono per noi altri di non essere triturati da questo sistema?
Parte della risposta l’ho data prima: ci sono modi per aggirare l’obsolescenza programmata, ma solo con l’aiuto di un informatico o di un utente avanzato. Ciò apre però un grande discorso sulla carenza della scuola e dello Stato nel formare cittadini capaci di usare i propri dispositivi informatici senza esserne vittime: i ragazzini del nostro laboratorio, a 13 anni, sono in grado di aggiornare il proprio vecchio computer a Windows 11 senza problemi, ma il 99,99% della popolazione no. E, personalmente, resto sempre perplesso nel guardare una società basata sulla tecnologia – dove addirittura i pagamenti e i dati sensibili dell’utente vengono trattati con l’informatica – abbandonare i propri cittadini in balia di un mondo che non capiscono e ai quali nessuno ha insegnato o insegna a padroneggiare.

Tutto ciò vale anche per l’Intelligenza artificiale?
L’Intelligenza artificiale non aiuterà certo i dispositivi a durare di più: parliamo di un campo in piena evoluzione, che a ogni passo avanti chiederà requisiti hardware sempre superiori. Abbiamo già ad esempio microprocessori contenenti chip dedicati all’elaborazione dell’IA, come i nuovi Intel Ultra Core con il chip NPU (Neural Processing Unit), ma tenendo conto dello sviluppo supersonico di questa tecnologia c’è da aspettarsi una scalata dei requisiti minimi piuttosto vertiginosa.