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Un toccante alfabeto dell’integrazione
Nell’ultimo libro curato da Silvia Bello Molteni le voci di una trentina di giovani migranti giunti in Ticino
Stefania Hubmann
Acqua, dolore, fame, mamma, identità, nome, parto, zitta. Sono alcune delle significative parole dalle quali prendono avvio i racconti di giovani uomini e donne giunti in Ticino dopo un cammino migratorio e riusciti a costruirsi una vita indipendente frequentando il percorso d’inserimento scolastico e professionale Progetto Sociale del Gruppo Ospedaliero Moncucco. A dar voce alle persone fuggite da undici diversi Paesi in cui la popolazione subisce le conseguenze di flagelli come guerre, discriminazioni e povertà, è Silvia Bello Molteni, insegnante del Progetto Sociale. Nel suo ultimo libro, edito da Salvioni, riunisce una trentina di testimonianze attraverso il fil rouge dell’alfabeto italiano dal quale parte il non facile apprendimento da parte dei migranti della lingua italiana, primo passo per poter raggiungere un’integrazione professionale e sociale. Il volume è intitolato In italiano le parole suonano in bocca, frase riferita alla curatrice da un giovane afghano. Alla Clinica Moncucco di Lugano, accolti dal responsabile delle risorse umane Cristiano Canuti, abbiamo raccolto la testimonianza di un altro afghano, Sayed /Ali, che terminerà la formazione di addetto alle cure sociosanitarie l’anno prossimo.
Sulla copertina del libro spicca l’immagine di un ponte composto da parole a ricordare da un lato la nascita del Progetto – che ha preso spunto dall’appello lanciato da Papa Francesco nel 2015 a favore dei migranti invitando a dar loro «una speranza concreta», a «costruire ponti» – e dall’altro il ponte che ognuno degli allievi della scuola interna del Gruppo Ospedaliero Moncucco ha superato o sta attraversando. Sono infatti oltre cinquanta le persone che dal 2016 hanno seguito la formazione, di cui una trentina diplomati e inseriti nel mondo del lavoro. La coordinazione del Progetto Sociale è affidata a Monica di Bacco, responsabile della formazione in clinica. Silvia Bello Molteni, dopo aver avviato e gestito il Progetto, accompagna ora gli allievi quale insegnante di italiano ed educatrice unitamente a un educatore e a due formatori (infermieri) per le conoscenze professionali. La docente, con una lunga esperienza nell’insegnamento elementare e nell’inserimento professionale, sottolinea il coraggio e l’impegno dei suoi allievi in un percorso non certo privo di difficoltà. Riguardo alla pubblicazione spiega: «Il libro nasce dal desiderio di rendere pubbliche le loro testimonianze, offrendo loro la possibilità di raccontarsi nella lingua con la quale oggi vivono, studiano e lavorano. Sono tutte storie che partono dalla sofferenza, vissuta per cause e in forme diverse, ma che nella parte finale esprimono speranza, oltre a un sentimento di gratitudine». La pubblicazione è anche un riconoscimento al Gruppo Ospedaliero Moncucco. Prosegue la curatrice: «Va ricordato che il progetto è stato avviato quando ancora non esistevano percorsi strutturati per l’inserimento professionale dei migranti. Siamo partiti con pochi allievi, affinando di anno in anno il percorso e le collaborazioni».
A questo proposito il responsabile delle risorse umane Cristiano Canuti ricorda come nel 2016 la formazione sia stata promossa e finanziata dalla Clinica Moncucco con il nome di Progetto Integra-Ti. «L’iniziativa è stata subito sostenuta dalle Autorità cantonali e federali», afferma il rappresentante della Clinica. «Nel 2020 è diventata Progetto Sociale con l’accoglienza estesa ogni anno a 4/6 giovani ticinesi senza formazione e beneficiari di prestazioni assistenziali. Per loro il programma è stato appositamente adattato». La formazione standard si compone di un anno di Pre-Apprendistato d’Integrazione (PAI) che abbina il lavoro a due giorni di scuola. Il PAI permette di migliorare le competenze scolastiche (in particolare la lingua italiana) in modo da poter proseguire con i due anni di apprendistato federale quale addetto/a alle cure sociosanitarie. Ogni anno vengono ammessi 6/7 allievi dopo un colloquio che ne valuta motivazione, livello linguistico e attitudine attraverso uno o più stage.
Oggi allieve e allievi, la cui età media tende ad abbassarsi attorno ai 20 anni, possono svolgere il PAI e l’apprendistato anche all’esterno della Clinica Moncucco, presso una struttura sanitaria partner dove in seguito sono sovente assunti. Cristiano Canuti sottolinea come il Progetto abbia fatto le sue prove pure dal punto di vista della sostenibilità. «Al di là del forte impatto umano – precisa al riguardo – uno studio commissionato alla SUPSI nel 2020 dimostra il favorevole rapporto costi-benefici economici». Le persone formate raggiungono infatti un’indipendenza economica, lavorando in un settore sempre alla ricerca di personale. Per Canuti, in conclusione, «il Progetto Sociale del Gruppo Ospedaliero Moncucco potrebbe essere esteso con successo ad altri ambiti lavorativi, favorendo la formazione e l’integrazione professionale di un maggior numero di persone alle quali viene offerta una chance che spetta comunque a loro cogliere e condurre a buon fine».
La storia di Sayed/Ali, giovane afghano di 34 anni, conferma proprio quest’ultima riflessione. Nel libro troviamo il suo racconto alla lettera N, corrispondente alla parola nome. «Sono stato Ali fino all’età di dieci anni – racconta nel volume – poi, quando in Afghanistan sono arrivati al potere i talebani per la prima volta, sono cominciati i problemi: il nome Ali è infatti legato alla religione sciita che i talebani combattono». Il padre decide pertanto di cambiare nome al figlio unico che diventa Sayed Mohammad. Oggi questo è il suo nome ufficiale, a scuola e sul posto di lavoro. Nel cuore e per gli amici afghani e ticinesi rimane però Ali. Nel nostro incontro si sofferma soprattutto sul radicale cambiamento di vita che ha dovuto affrontare per sfuggire alle minacce nel suo Paese. Come altri protagonisti della raccolta In italiano le parole suonano in bocca, Sayed/Ali ha attraversato fra mille peripezie Iran, Turchia e Grecia. «Ho lasciato il mio Paese perché la mia attività di giornalista stava diventando sempre più pericolosa. Avevo un lavoro che è tuttora la mia passione, una vita sociale intensa e studi di psicologia alle spalle. Arrivato qui mi sono sentito molto solo e ho faticato ad accettare la nuova situazione che non mi permetteva di trovare lavoro nel mio settore. Un primo tentativo di frequentare il PAI è fallito. Quando, dopo un lungo periodo e tanto stress, sono finalmente riuscito ad ammettere a me stesso che era questa la mia nuova vita, ho ripreso la scuola. Ora il giornalismo è diventato un hobby caratterizzato dalla realizzazione di podcast e dalla collaborazione con la diaspora afghana in Svizzera. Vivo in maniera indipendente in un piccolo appartamento e sono ben integrato con contatti sia ticinesi che afghani grazie anche all’associazione Comunità Afghana Ticino». La sua gratitudine si estende a Silvia Bello Molteni per l’aiuto ricevuto. Una gratitudine generale traspare da diverse pagine del libro con le voci di uomini e donne, fra le quali giovani madri, che apprezzano la libertà, la sicurezza, la possibilità di affermarsi come persone e di lavorare che hanno trovato in Svizzera, senza dimenticare l’importanza di gesti quotidiani per noi scontati, come l’acqua che esce dal rubinetto.
Silvia Bello Molteni ha già affrontato il tema della migrazione nel romanzo Non sei solo (Salvioni, 2020) con protagonista Mahdi e il suo viaggio dall’Afghanistan all’Europa. Ora, riunendo i racconti dei suoi allievi ed ex allievi nel fedele rispetto di come i pensieri sono stati espressi, è consapevole di aver offerto loro «un esercizio di libertà per esprimere la vita passata, i sentimenti e i desideri che li hanno condotti al presente. Hanno dovuto scappare per potersi raccontare e lo fanno nella loro nuova lingua che per molti è quella in cui le parole suonano in bocca».