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Aiutare gli adolescenti contro le dipendenze

Nel suo ultimo libro, "L’età dello sballo", la psicoanalista Laura Pigozzi spiega che il germe della dipendenza può mettere radici già in famiglia. E ricorda che «farcela è possibile»
/ 18/11/2024
Stefania Prandi

«A chi ce l’ha già fatta. A chi ce la farà». Si apre con un messaggio di speranza l’ultimo libro di Laura Pigozzi, psicoanalista e scrittrice, specializzata in questioni che riguardano le famiglie, i giovani e il femminile. Il testo, intitolato L’età dello sballo (Rizzoli), è dedicato all’abuso di sostante psicotrope, alcol, cibo e internet durante l’adolescenza. Pigozzi ha alle spalle vent’anni di esperienza diretta sul campo con l’ascolto quotidiano di «situazioni spesso al limite». Tra le pagine spiega che il germe della dipendenza «può svilupparsi anche a causa delle famiglie che non sono in grado di crescere persone capaci di resistere alle difficoltà della vita». I genitori non ascoltano i moniti, sempre più frequenti, degli esperti e continuano a trattare i propri figli come esseri dipendenti da loro: invece di prepararli al mondo, li condannano a un’infanzia eterna.

Laura Pigozzi, lei scrive che la dipendenza è la malattia del secolo. Che differenze ci sono rispetto al passato?
Si crede erroneamente che la malattia del secolo sia la depressione, ma dalla mia esperienza clinica vedo che moltissime depressioni sono in realtà dipendenze celate. Il fenomeno è più diffuso di una volta, non solo per il numero di casi, ma anche per ragioni culturali. Per capire la situazione in cui ci troviamo, dobbiamo fare un passo indietro. Noi nasciamo dipendenti dalle mani della madre o di chi la sostituisce in quella funzione fondamentale che richiede una simbiosi. Crescendo, il programma dovrebbe essere quello di diventare progressivamente indipendenti, arrivando all’autonomia nell’età adulta. Un traguardo che è diventato difficile a causa del discorso sociale in cui siamo immersi: la dipendenza oramai non viene considerata un disvalore. Siamo in un buco educativo, con i genitori che mantengono i figli sempre legati a loro, impedendo la separazione, facendogli credere di non essere in grado di farcela da soli.

Quando comincia questo approccio educativo?
Io vedo che la tendenza a tenersi legati i figli inizia da subito, già con le forme di allattamento «a chiamata», senza ritmo, che si prolungano a oltranza, anche quando il latte materno perde le sostanze nutritive dei primi mesi. È come se la madre fosse un supermercato, perennemente a disposizione del proprio figlio. Così, però, non si instaura una relazione sana, con presenze e assenze. La mamma c’è sempre, impedendo al bambino di sperimentare la tolleranza dell’assenza e di sviluppare la resilienza alla mancanza, fondamentali nella vita. Se ogni volta che il bambino si sente agitato viene calmato col seno, come propongono certi discorsi pseudoscientifici di medici e personale paramedico, si pongono le basi per l’inizio di una potenziale dipendenza. Sembra che il piccolo debba essere sempre «otturato». Si crede che sia a disagio e quindi, voilà, si somministra il latte. Non lasciare mai piangere un bambino è sbagliato, perché quello è il meccanismo attraverso il quale comunica i suoi desideri, che non sono sempre per il cibo. Ci possono essere richieste di altro tipo che i genitori devono imparare a interpretare nella relazione.

Esistono persone più predisposte alle dipendenze?
L’eredità genetica, che può predisporre a certe tendenze, come ad esempio all’abuso di sostanze, non è un destino. È chiaro che se si cresce con dei genitori tossicodipendenti si hanno maggiori probabilità di emulare certi comportamenti, perché le sostanze girano per casa. Però non sono soltanto queste le persone a rischio: crescere esseri umani che non vengono mai abituati alla mancanza e alla delusione significa predisporli a diventare adolescenti dipendenti. Un teenager senza un minimo di autonomia rischia di cadere nella trappola delle droghe alla prima grossa delusione, come una bocciatura oppure l’esclusione dal gruppo dei pari. Nel libro cito l’arte giapponese del kintsugi, che consiste nel riparare con l’oro un oggetto di ceramica rotto, perché c’è la convinzione che possa diventare più bello di quanto non lo fosse in origine. Le vite, invece, non si possono rimettere insieme con una polverina che sballa. I miei pazienti adolescenti dicono che per loro l’eroina è come un grembo caldo. Una credenza che ha origine nel «plusmaterno», un termine che non prende di mira le madri, ma chiunque eroghi quel comportamento fin dall’infanzia. Il plusmaterno implica volere essere adorati e ammirati dal proprio figlio. È diverso dall’ipercura: si chiede all’altro un bene esagerato, si vuole che la propria parola sia legge contro quella degli altri.

Che tipo di dipendenze hanno i giovani di oggi?
C’è un abuso di Fentanyl, un oppiaceo sintetico con una potenza molto superiore a quella della morfina, che però da noi non viene assunto come negli Stati Uniti. In Europa il Fentanyl viene usato per tagliare le altre sostanze. In generale, dilagano le droghe sintetiche e perfino la marijuana non è quella di una volta, perché è molto più potente e dà effetti diversi. Inoltre ci sono la dipendenza dall’alcol, dal cibo e da internet. Il problema di internet è che impegna i nostri ragazzi per ore, trattenendoli in casa. Il fatto che restino sotto i nostri occhi ci rassicura, ma sbagliamo, perché mentre noi pensiamo che stiano navigando in modo innocente, loro, invece, magari si stanno vendendo foto e video dei piedi su Onlyfans, come mi hanno raccontato alcune giovani pazienti. I ragazzi dovrebbero uscire, stare con gli amici, avere figure adulte di riferimento diverse da quelle della madre e del padre.

Come si esce dalla dipendenza?
Credo che sia importante cercare di prevenire le dipendenze cambiando il modo in cui educhiamo i nostri figli, lasciando che sbaglino, che cadano, che prendano strade che magari non ci piacciono, ma che sono giuste per loro. I genitori devono aiutare a indicare la via di uscita, ma non sostituirsi ai figli. E se si instaura una dipendenza, da sostanze o da altro, va subito combattuta chiedendo aiuto allo psicanalista e ai servizi pubblici. In certi casi è opportuno considerare anche le comunità di recupero. Non bisogna vergognarsi, ma reagire nel modo corretto. Da parte mia, oltre all’impegno come psicoanalista e autrice di libri su queste tematiche, da questo mese di novembre avvierò con la Fondazione Hapax un corso online gratuito per i genitori: sette lezioni, una al mese. Alla fine ci si potrà rivolgere a uno sportello. L’iniziativa è in lingua italiana ed è aperta a chiunque voglia partecipare.