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Ragione ed emozioni in equilibrio

Psicologia: riconoscere e dare un senso alle emozioni permette di colorare il nostro vocabolario e la nostra vita
/ 07/10/2024
Maria Grazia Buletti

Tutti noi ne parliamo e, in fondo, pochi sanno cosa sono e cosa rappresentano per davvero. Ognuno viene al mondo con il bagaglio delle sei primarie e ne acquisisce un ampio ventaglio nel corso della vita. Resta indiscutibile l’importanza del loro ruolo. Sono le emozioni, la cui funzione è determinante per l’intera vita, malgrado sia culturalmente condizionata da una visione che le contrappone alla ragione, e si tratti di un’interpretazione non suffragata da vere basi scientifiche.

Per provare a comprendere meglio l’importanza e il ruolo delle emozioni, secondo la psicologa e psicoterapeuta Nadine Maetzler bisogna innanzitutto partire dall’etimologia del termine, con la premessa che la parola emozione entra nel nostro vocabolario attraverso il francese emotion: «L’etimologia di quest’ultima è da rintracciarsi nel verbo latino “movere” col prefisso “e”: qualcosa che dal di dentro va verso l’esterno». Come l’azzeccato titolo del lungometraggio Inside Out, tornato recentemente sugli schermi con il suo sequel che, descrivendo l’insorgere delle ansie legate alla fase dell’adolescenza, porta alla ribalta l’importanza del ruolo delle emozioni.

«Rabbia, paura, disgusto, tristezza, gioia e stupore sono le sei emozioni cosiddette primarie con le quali nasciamo, e rivestono un ruolo fondamentale lungo tutto ciò che è il nostro percorso: nella comunicazione, nelle decisioni, nel ragionamento, nel giudizio e via dicendo; in fondo, sono quelle che ci aiutano a comprendere l’interazione tra noi e gli altri, tra cosa possiamo o non possiamo fare». È la premessa della nostra interlocutrice che ricorda come, poi, dalle sei emozioni primarie nasceranno tutte le altre: «Sono imparate, insegnate, acquisite, tramandate nel corso della vita. Senso di colpa e vergogna, ad esempio, rappresentano due classiche emozioni che il neonato non ha ancora, ma che imparerà perché gli verranno insegnate».

E abbiamo davvero bisogno anche di quelle che ci sembrano negative: «Ad esempio, la paura è un’emozione salvifica: pensiamo all’evoluzione dell’uomo che uscendo dalla caverna per la caccia si era trovato dinanzi un orso: se non avesse avuto paura non sarebbe scappato e sarebbe potuto morire mangiato, mentre la paura lo spingeva a rientrare e uscire solo a pericolo scampato. Oggi, la paura fa sì che non ci imbattiamo in pericoli che possano produrre incidenti o decisioni pericolose: se non temo la strada e attraverso le strisce pedonali mentre sopraggiunge un’automobile, la cosa si fa dura. Certo, quando la paura prevale, è chiaro che siamo in un altro campo che diventa invalidante: torniamo quindi alla necessità di creare un equilibrio fra razionalità ed emozioni. Altro esempio è il senso di colpa, fondamentale per una persona che commette un reato: se lo matura, significa che ha consapevolezza di aver commesso qualcosa di errato.

Un passaggio essenziale, fondamentale, che innesca il processo di scuse nei confronti della vittima e della società: pensiamo a quando gli individui che commettono qualcosa di vietato, non accettato socialmente, non sono in grado di chiedere scusa perché non hanno il senso di colpa; ciò significa che non hanno maturato la consapevolezza della gravità del loro atto».

Dunque, tra ragione ed emozione, si ribadisce ancora la necessità di instaurare un equilibrio: «Siamo quasi propensi a considerare ragione ed emozione come due alleate o due nemiche perché tendiamo a dividere le persone in razionali e irrazionali. Ma se consideriamo l’intelligenza emotiva, al netto di tutto, è chiaro come ci siano dentro ragione ed emozione. Quindi, l’equilibrio tra le due è essenziale, proprio perché l’intelligenza emotiva congloba entrambe, ed è così che nasce quell’abilità della conoscenza delle proprie emozioni, della loro regolazione, e quell’empatia verso l’altro che aiuta nella gestione delle relazioni».

Allora, ribadisce Maetzler: «Per vivere, anche socialmente, l’equilibrio fra le due è davvero importante, altrimenti diventiamo degli analitici, oppure delle persone iperemotive». Scopriamo sempre più due facce di una stessa medaglia: le emozioni non sono di per sé né buone né cattive, e non si possono suddividere in belle o brutte, utili o inutili, mentre è importante imparare a individuarle: «La parte più difficile è riconoscere la mia emozione ed esserne consapevole per riuscire a dare un senso a ciò che percepisco. Ma per riconoscere e maturare la consapevolezza delle mie emozioni devo imparare ad accettarle: un passo senza il quale non posso arrivare a un cambiamento. Infine, resta il dare un senso a ciò che provo».

Secondo la psicologa, la difficoltà nel riconoscere le emozioni risiede pure nel nostro analfabetismo emotivo: «Significa che usiamo poche parole per colorare il nostro vocabolario delle emozioni. Ad esempio, in “sono contento” si possono leggere un ventaglio di emozioni come “sono entusiasta, sono emozionato, sono grato, sono esaltato, sono apprezzato”. Alla domanda “come stai?”, rispondiamo “Bene” o “Male”, mentre pensando alla tristezza, ad esempio, le sfumature del mio sentimento spaziano tra “sono ferito, affranto, infelice”: tutti sottotipi di una stessa emozione che però difficilmente riusciamo a verbalizzare per quello che davvero è».

D’altronde, fa notare Maetzler, la nostra società preferisce una certa superficialità: «Se qualcuno ti chiede come stai, poi non sa cosa farne della tua emozione se questa non è positiva». La buona notizia è che oggi l’istituzione scolastica sta facendo parecchio per contrastare l’analfabetizzazione emotiva, retaggio della nostra cultura del nascondere le emozioni, verso un’apertura e una sensibilizzazione: «Già dalla scuola dell’infanzia, si sta operando con un ottimo lavoro votato a insegnare le emozioni ai bambini piccoli. La questione delle emozioni è tematizzata anche nei percorsi scolastici dell’obbligo e dobbiamo complimentarci con la scuola che da qualche anno sta provando a promuovere quest’alfabetizzazione emotiva. Non dimentichiamo che alla base di tutto ci sono l’ascolto e il fermarsi: siamo una società frenetica in cui fermarsi, ascoltarsi e ascoltare sono diventati necessari, se non fondamentali, e forse salvifici. Ascoltarsi e ascoltare l’altro fa comunità, in un’era di individualismo da cui dovremmo staccarci per andare nuovamente verso un discorso comunitario. Davanti ai nostri giovani, ascoltiamo cosa li affligge, cosa li preoccupa, cosa li rende contenti…».

La psicologa sottolinea come questo atteggiamento di accoglienza appartenga da sempre ai professionisti, i cui casi «stanno diventando sempre più complessi, a causa della complessa evoluzione della famiglia e della società stessa». Nell’antichità molti pensavano che la sede delle emozioni fosse il cuore, oggi sappiamo che ha la sua importanza e, come diceva Pascal, ha sempre le sue ragioni: «Forse sono in controtendenza, ma tra psiche e cuore scelgo sempre la pancia: è ciò che, come dire, rappresenta un dissidio tra razionalità e irrazionalità. Mi fermo e ascolto la mia pancia. Quella cosa mi dice?».