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Se il cambiamento climatico fa crescere l’ansia
Riscaldamento globale e degrado ambientale all’origine di un disagio emotivo che condiziona la vita quotidiana
Maria Grazia Buletti
«Cos’è l’ansia legata al cambiamento climatico?… pensare costantemente a come salvare il pianeta, tornare da mattina a sera a questi pensieri: io vedo che attorno a me tutto si degrada, anche negli altri Paesi… un decadimento globale… e mi sento costantemente angosciata dalla situazione. Non so se riusciremo a trovare una soluzione…». A parlare, lo scorso novembre ai microfoni della RTS, è Cathleen, una giovane di 21 anni che, come parecchie altre persone, sta facendo i conti con quell’ansia costante che la porta alla continua sensazione di sprofondare nello sconforto, fino alla disperazione, col pensiero incessante del caos climatico legato al nostro pianeta. La perdita di biodiversità e gli eventi meteorologici estremi stanno generando preoccupazioni e un notevole carico emotivo generale.
Non si può più parlare di «trend» del momento a favore di conversazioni da salotto poiché il problema, nato tempo fa e molto più serio di quanto si possa pensare, appartiene pure alla sfera della nostra salute mentale. Oggi emerge in tutta la sua complessità, spiega lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia, presidente dell’ASI ADOC (associazione disturbi d’ansia, depressione e ossessivo-compulsivi) che venerdì 4 ottobre propone al Teatro Sociale OSC di Mendrisio, un seminario clinico aperto al pubblico sui disturbi d’ansia correlati ai cambiamenti climatici: «Ecoansia è un termine coniato nel 2003; ciò significa che i disturbi nelle persone sono iniziati molto tempo fa, peggiorando progressivamente soprattutto fra le giovani generazioni». L’allarme è generale, come dimostrano l’OMS e lo psichiatra Philippe Conus (responsabile del Dipartimento di psichiatria generale del CHUV): «A causa dei pensieri legati ai cambiamenti climatici, nella popolazione aumentano lo stato d’animo di ansia costante e la perdita di sonno, fino all’incapacità di recarsi al lavoro, a condizionare la vita di tutti i giorni. Ma non si sta prestando sufficiente attenzione al problema». Dal canto suo, l’UNICEF cita gli studi trasversali sul dilagante aumento di malessere proprio fra i giovani («7 ragazzi su 10 sono molto preoccupati per questa situazione»). È ora di chinarsi seriamente sui sintomi che il dottor Mattia così riassume: «Si prova timore, preoccupazione, senso diffuso di insicurezza, fino a quella profonda sensazione di disagio e di paura emergenti al pensiero ricorrente di possibili calamità ecologiche e ambientali e ai relativi disastri correlati. Non v’è dubbio che il tema dell’ecoansia sia diventato di interesse e dominio pubblico, suffragato da studi scientifici a certificare che, qualora nei prossimi anni la temperatura terrestre aumentasse ancora, nel mondo avremmo 420 milioni di persone che andrebbero incontro a problematiche serie». In modo speculare sta il timore diametralmente opposto: «Coinvolge quelle persone che vanno verso la negazione del problema ed entrano nella dimensione dell’ecoparalisi: non esiste, è creato dai media, il mondo è sempre stato così e andrà avanti così. Un diniego verso la problematica di una certa area della popolazione, che non risparmia nemmeno qualche professionista della salute». Egli parla della «trasversalità dell’ecoansia»: «Pensiamo solo che alla base del cambiamento climatico c’è un aumento della concentrazione di CO2 che le piante non sono più in grado di assorbire abbastanza. Ne risulta una “continua infiammazione” dell’aria che respiriamo di cui noi non ci rendiamo conto, simile a un virus lento che agisce piano piano dentro di noi».
L’ecoansia è dunque un grattacapo di salute pubblica che va affrontato immediatamente: il clima influenza profondamente la società e l’economia, oltre che la salute, e le crisi globali costituiscono altresì una minaccia per il benessere psicologico: «Queste trasformazioni complesse stanno originando nuovi fenomeni di rilievo per la psicologia tanto che, recentemente, si parla sempre più (e purtroppo soprattutto nei giovani) di angoscia da cambiamento climatico, solastalgia, ecoansia, stress ambientale, lutto ecologico, stress psicologico legato al clima. L’impatto psicologico negativo sulla salute mentale, fra l’altro, si manifesta con la perdita media di 14 minuti di sonno al giorno nelle notti calde, e nella popolazione dei Paesi poveri è tre volte maggiore». Citando uno studio dell’Università di Pavia, lo psichiatra conferma dati del tutto sovrapponibili alla situazione del nostro cantone e della Svizzera: «Su una popolazione di bambini fra i 5 e gli 11 anni, si è evidenziato che il 95 per cento è preoccupato per il futuro dell’ambiente, e 1 su 3 ha riferito di aver avuto brutti sogni legati al cambiamento climatico». Inoltre: «Da un’inchiesta pubblicata su “Lancet” (2020) emerge come, nel gruppo di persone considerato, l’80 per cento risulta moderatamente preoccupato (di cui il 59 per cento molto preoccupato) e il 39 per cento non vorrebbe avere figli a causa dell’ansia ambientale». Lecito chiedersi cosa significhi se a 20 o 30 anni questo problema inibisce il desiderio di un figlio: «Quali saranno le ripercussioni sulla società del futuro? Allora si capisce l’importanza di riuscire ad arginare l’ansia proiettiva che blocca queste giovani generazioni».
Non vi sono, per contro, dati specifici che legano la pandemia all’ecoansia: «Si può parlare di una problematica che, come altre, era sottosoglia e che la pandemia può aver contribuito ad evidenziare. Altro discorso per l’impatto concreto, ad esempio, dell’alluvione nei Grigioni e in Valle Maggia degli scorsi mesi». La consapevolezza che il nostro ambiente è «casa nostra», specifica il medico, deve condurci a superare l’individualità pervasiva degli ultimi tempi, per tornare ad averne cura in modo collettivo: «Dobbiamo essere attori della nostra evoluzione, senza cadere in una dimensione di rigidità di un cambiamento che deve restare progressivo e continuativo, rispettando i tempi di ciascuno». Curarsi dell’ambiente significa: «Chiedersi cosa rappresenta “l’ambiente-casa” per noi e per il nostro futuro, ricordando che abbiamo ereditato un habitat che dobbiamo consegnare a chi arriva dopo di noi. Riconoscerci in questa dimensione, dare un senso maggiore a quanto facciamo (se getto una bottiglia di pet nella spazzatura faccio un danno, se la metto nella differenziata sto creando un benessere): sono elementi che concorrono a creare una rete di persone interessate, dove il nostro esempio può creare un effetto domino positivo nella nostra microsocietà che saprà influenzare la collettività». Attenzione a chi, con questo, «vuole fare cassetta»: «È importante non cadere all’interno di correnti che strumentalizzano l’ansia climatica attraverso la richiesta di denaro. Si può andare spontaneamente nella natura con famiglia e amici, ad esempio, senza che qualcuno si faccia pagare per insegnarci ad abbracciare gli alberi». Nei casi che necessitano di sostegno, conclude: «La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) interviene sul circuito dell’ansia attraverso la ristrutturazione cognitiva che permette di rimanere nel qui e ora. La psicoterapia (TCC) agisce sulle piccole cose fondamentali che ci permettono di stare meglio con noi stessi per aver fatto un atto che fa bene a noi e all’ambiente, ed ha un’azione curativa sul circuito dell’ecoansia. Questo, insieme all’Acceptance and compassion therapy (ACT), ovvero la terapia di accettazione e di impegno all’azione, verso l’ambiente stesso, crea una sorta di empatia verso di esso, che ci aiuta ad essere più consapevoli dell’impatto di ogni nostro gesto».