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Prendersi cura degli ultimi
Emergenze invisibili: l’attenzione alle cure palliative come segno di estrema solidarietà con le persone ai margini della società
Andrea Fazioli
La mia visione della politica è semplice. Forse anche troppo semplice. Ma ha almeno il vantaggio di essere chiara: il suo scopo è aiutare i poveri. Ho sempre pensato che il grado di civiltà di uno Stato si misuri nella capacità di prestare attenzione agli ultimi. Sembra ovvio, ma è davvero così? Basta aprire un giornale (o peggio, un social network). Basta entrare in un bar e ascoltare le chiacchiere. Le paure s’intrecciano alle opinioni in un circolo perverso, dove prevale la necessità di schierarsi e di cancellare ciò che non ha spiegazione. Anche il male, e la sofferenza che ne consegue, diventa un territorio di battaglia. Eppure, a definirci come esseri umani, è la capacità di prenderci cura, di rimanere accanto a chi non sa più chiedere aiuto. Tutto il resto viene dopo.
Non è difficile individuare chi sta ai margini: i carcerati, i migranti, i senza tetto, le persone affette da patologie mentali o da forme di disabilità. Fra di loro ci sono persone che, in più, sono afflitte da malattie croniche o inguaribili. Mi pare che oggi, nella nostra società, questi individui siano gli ultimi fra gli ultimi. Siamo in grado di prestare loro attenzione? Questa domanda urgente, insieme ad altre, era al centro della recente giornata cantonale per le cure palliative, alla quale ho partecipato come moderatore. Lo scopo del congresso, organizzato da Palliative Ticino (palliative.ch), era quello di analizzare la situazione attuale e di mettere in rete le competenze specifiche degli specialisti.
Parlando con i medici e i vari esperti mi sono reso conto che le cure palliative non sono soltanto un modo per accompagnare le persone alla morte, e nemmeno per aiutarle a sopportare le malattie croniche combattendo la sofferenza. Come e più di ogni altra branca della medicina, le cure palliative necessitano di entrare in una relazione intensa con il paziente, per capire che cosa intenda per dolore e quale sia la sua visione di sé stesso come essere umano capace di desideri e di speranza.
Prendiamo per esempio i carcerati. Secondo la legge svizzera, essi hanno gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini, esclusa naturalmente la libertà di circolazione. Questo significa anche il diritto a venire curati come gli altri e, se necessario, ad accedere alle cure palliative. La ricercatrice inglese Mary Turner ha mostrato nel suo intervento come in Europa la popolazione carceraria sia sempre più anziana e bisognosa di cure. Eppure, più ancora di ogni altra categoria, i carcerati sono invisibili. Ci sono alcune strutture di assistenza in alcune prigioni, ma sono una minoranza.
La testimonianza di un secondino è crudele: «Mentre stanno morendo, la stanza è chiusa a chiave. A meno che non siano legati al letto, continuano a venire considerati pericolosi».
La difficoltà a smuovere l’opinione pubblica è enorme. Molti vedono il carcere in senso vendicativo: hanno commesso del male, è giusto che paghino. Altri considerano le cure palliative una sorta di lusso, invece di un elemento essenziale per la dignità. Altri ancora, sottolineava la professoressa Turner, pensano che ci siano problemi più urgenti. Invece no, invece il problema più urgente è non cedere, non lasciare che venga sommerso l’argine della solidarietà. Altrimenti smetteremo di essere una società per diventare un insieme di individui che vivono nello stesso luogo. Non si tratta di innocenza o colpevolezza, e nemmeno del fatto che al posto dei carcerati potremmo esserci noi o i nostri cari. La verità è che se smettiamo di capire il dolore degli altri rinunciamo alla nostra umanità.
Quello che vale per i carcerati è vero anche per i disabili mentali. Secondo il professor Luigi Grassi, dell’università di Ferrara, il disturbo psichico è la grande sfida medica del XXI secolo, sia per l’enorme diffusione, sia per la difficoltà di prevenzione. I malati sono nascosti da un doppio sbarramento: la patologia fisica e quella psichica. È difficile, per un medico che abbia competenze in uno solo dei due campi, arrivare fino al nocciolo della persona. Nel caso delle malattie oncologiche, le statistiche mostrano non solo che la mortalità fra i disabili mentali è più alta, ma che essi usufruiscono di un accesso limitato alle cure palliative. Ci sono problemi di ordine tecnico e professionale, ma di nuovo una delle cause è lo stigma sociale nei confronti dei malati di mente.
Una situazione simile si verifica anche nel contesto dei migranti, che sono in una situazione precaria e che devono far fronte a differenze linguistiche e culturali anche nell’espressione del dolore e nel modo di vivere la malattia. E che dire delle persone senza dimora? In questo caso non basta una generica disposizione all’accoglienza, ma bisogna andarle a cercare, risvegliando in loro la voglia di una vita migliore. Sì, paradossalmente per essere disposti alle cure palliative è necessaria la speranza. Quando si riaccende il desiderio, anche solo quello di non provare dolore, allora la vita acquista di nuovo un significato. Le cure palliative, in questo senso, non sono altro che una forma estrema di ascolto.
Nel corso delle conferenze – quelle che ho citato e le altre – mi sono posto molte domande sulla mia capacità di stare vicino a chi soffre, ma anche in generale sul mio lavoro. Che cos’è infatti la letteratura se non un modo per prestare attenzione al mondo? Il pallium, l’antico mantello romano che dà il nome alle cure palliative, avvolge i malati in un modo che non si limita alle competenze mediche. Anche il gesto artistico può essere una cura, nel senso profondo del termine, poiché genera un significato. La bellezza, la creatività, l’ironia sono mezzi di resistenza. Così come la politica, anche l’arte ha senso se diventa «medicina», e cioè un mezzo per stare vicino a chi è povero, a chi si sente fragile. Certo, tutti noi, quando arriva l’ombra della malattia, siamo poveri e fragili. Ma alcuni lo sono più degli altri, e questo non dobbiamo dimenticarcelo.