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Il valore storico della pesca professionale con reti

Sui nostri laghi, Ceresio e Verbano, è ancora oggi importante e dovrebbe venir rivalutata anche dai giovani
/ 17/06/2024
Raimondo Locatelli

Sul Ceresio «ticinese», analogamente sul Verbano da Brissago a Magadino, pratica la pesca un esercito di pescatori dilettanti (quelli con la canna, per intenderci) e qualche decina di pescatori professionisti (con le reti). Questi ultimi sono i cosiddetti «pescatori per mestiere».

Oggigiorno la pesca professionale è sempre più in… disarmo o, comunque, ormai ridotta al lumicino dal punto di vista numerico. In passato, per contro, questo genere di pesca rappresentava un’attività tradizionale e, anzi, gli adepti costituivano un’autentica figura primaria nel contesto socio-economico delle zone lacuali. Questo perché proprio i nostri laghi subalpini erano un’importante, irrinunciabile fonte di sostentamento per la popolazione dei villaggi incastonati sulle rive.

Il periodo d’oro della pesca con reti, con una tradizione che si tramandava da padre in figlio, risale ai primi decenni del Novecento, allorquando – per citare il compianto Paolo Poma di Morcote, autentico osservatore della realtà lacuale ceresiana oltre che appassionato pescatore con la barca – vi era una straordinaria abbondanza di pesce, come salmerini, coregoni, agoni, alborelle, persici, triotti, anguille, eccetera. Abbondanza che fruttava sostentamento e un discreto benessere ai villaggi del Ceresio, tanto da smerciare il pesce sui mercati di Varese, Milano e Torino, oltre che a Lugano e al di là del Gottardo.

La pesca professionale, all’epoca, vedeva quindi impegnato un numero indubbiamente significativo di braccia maschili nell’impiego di reti e tirlindane, mentre alle donne spettavano i compiti di casa e l’accudimento dei figli nonché i lavori in campagna, ma anche la pulizia del pesce e, in non pochi casi, la quotidiana trasferta – con il gerlo spostandosi in battello – al mercato di Lugano o a Porto Ceresio per la vendita del prodotto ittico sulle bancarelle.

Diverse, le cause del declino

Dopo il 1950, la pesca come attività lucrativa ha perso sempre più mordente e importanza, per cui pian piano ma ineluttabilmente sia sul lago di Lugano sia sul Verbano il settore alieutico si è tramutato sempre più in ricreazione, a carattere prevalentemente sportivo, per occupare il tempo libero, stare nella natura, evadere, divertirsi e anche, talvolta, quale occasione di aggregazione. Di conseguenza, le catture per sfamarsi – come invece vigeva precedentemente – sono diventate sempre meno un’esigenza per soddisfare i bisogni alimentari essenziali, tramutandosi in fonte di emozioni tali da appagare la passione ancestrale tuttora viva nella nostra gente.

Un declino (inarrestabile?) che è andato acuendosi a partire dagli anni Sessanta ma ancor più sin oltre il 1980, a causa di molti fattori, principalmente: la speculazione che ha fagocitato le rive lacuali sino ad allora pubbliche e accessibili a chiunque; la piaga dell’inquinamento del Ceresio che ha ridotto questo straordinario specchio d’acqua, che tutti ci invidiano per la sua spettacolarità ambientale, a poco più di una cloaca, strozzando e sterminando così il novellame ittico; il servilismo del Ticino turistico nei confronti degli ospiti, chiudendo non uno ma tutti e due gli occhi al cospetto delle barche a motore che scorrazzano liberamente sul lago; persino una certa ma evidente acredine, o comunque un antagonismo fra dilettanti e professionisti, per cui queste categorie soprattutto sul Verbano si guardano quasi in cagnesco e mal si tollerano (vedi le polemiche virulente sul dossier delle bandite di pesca).

Persino gli uccelli ittiofagi…

I risultati sono lì da vedere, in quanto la pesca per mestiere va perdendo sempre più smalto e considerazione, cosicché il lago di Lugano – pur vantando una varietà e soprattutto una quantità nient’affatto irrilevante di pesci persici, coregoni, lucioperca e qualche altra specie – ha un patrimonio ittico decisamente impoverito poiché non è più il «lago dei salmerini» come nella prima metà del secolo passato; l’alborella, punto di riferimento di prima grandezza nella prima metà del Novecento, è scomparsa del tutto (anche se si cerca disperatamente di reinserirla, sinora con risultati insignificanti), suscitando uno sconquasso nella pesca come tale, attutito comunque in parte dalla presenza del gardon.

Patrimonio ittico impoverito, si diceva, non davvero da una pesca non sostenibile, anzi. A segnare tale impoverimento sono ben altri fattori: ad esempio gli uccelli ittiofagi (cormorani, svassi, smerghi e aironi cenerini) che rappresentano un’autentica, irrisolvibile (per ora siccome superprotetti dalla legislazione federale) calamità poiché si pappano quotidianamente un’enorme quantità di pesce; d’altra parte, anche altre specie ittiche sono sparite lasciando però il posto ad altre (vedi i famelici siluri), che arrecano grossi danni e soppiantano il nostro patrimonio; la stessa evoluzione dei popolamenti ittici, come pure della società e dell’economia, gioca un ruolo non sempre positivo, favorendo un’eccessiva pressione da parte della pesca come tale.

Prodotto naturale a km 0

Eppure, la pesca professionale ha un suo passato che non può, non deve essere cancellato. Ovvero, pur non essendo più data (come un tempo) la pressante esigenza di soddisfare i bisogni alimentari di prima necessità, i pescatori con reti sono essenziali, irrinunciabili per un lago, in quanto una pesca ben regolamentata è parte integrante delle misure per mantenere gli equilibri ittici, evitando che nelle acque non sfruttate si manifesti segnatamente una popolazione eccessiva di pesci poco pregiati ma più soggetti a epidemie e che intaccano la corretta gestione del patrimonio lacuale.

Senza trascurare un aspetto di primario significato: la presenza di pescatori con reti – in quanto gestori delle acque – è non soltanto da salvaguardare ma soprattutto da valorizzare. Basti qui citare la meritevole attività nel fornire pesce di lago, che è prodotto nostrano e fresco, oltre che di qualità, a chilometro zero dal profilo dell’impatto ambientale grazie alla cosiddetta filiera corta, ovvero il passaggio diretto dal pescatore al consumatore.

Tipicità e qualità del nostro pesce, come nel caso del «fritto misto», oppure del delizioso filetto di persico, di coregone e trota lacustre ma pure con tante altre ricette scintillanti e tali da ingolosire anche i più restii alle «provocazioni» della cucina, con la varietà che consente comunque anche tanti altri piatti variati e scintillanti nei gusti e nei sapori, oltre che originali e persino fantasiosi dal profilo del ricettario, nell’ottica di una consolidata e antica tradizione culinaria.

Tanto da legittimare la tesi che si è in presenza, grazie ai nostri pescatori per mestiere, di un’autentica «cultura» del pesce di lago al cospetto di certe sbavature nel consumo di pesce di mare da importazione che può suscitare qualche timore e persino rischi per la salute.

Pregiudizi e scarso riguardo

Tuttavia, bisogna pur riconoscerlo, permangono taluni pregiudizi su questo antichissimo, straordinario alimento. Difatti, non poche massaie rinunciano all’acquisto del pesce indigeno asserendo di non saperlo distinguere, oppure temono di sbagliare nel pulirlo e nel prepararlo per la cottura, oppure ancora sostengono che il pesce «puzza» ed è pieno di lische. Senza sottacere che, in questa civiltà della fretta e del «mangia e fuggi» – per cui malvolentieri si sta ai fornelli – si rincorrono altri menu più sbrigativi, magari già pronti, dimenticando il valore di un prodotto locale e naturale, fresco, appetibile, di buon gusto e delicatezza, con carni prelibate.

Anche se va pur detto che nei confronti di questo prodotto casereccio non è che ci sia chissà quale entusiasmo da parte di parecchi albergatori e ristoratori nell’offrirlo abitualmente alla propria clientela. E qui ci viene alla mente come invece, decenni or sono, sulle rive dei nostri laghi (a Morcote, Brusino Arsizio-Pojana, Bissone, Gandria, eccetera) la gente affollasse i grotti e le osterie per il piacere di assaggiare alborelle e pesce in carpione. Oggi, per contro, i locali di questo tipo o non ci sono più purtroppo, oppure sono da cercare con il lumicino, magari anche perché il pesce stesso scarseggia e il gestore di locale preferisce puntare dritto a un pesce di mare più sbrigativo ma che a volte suscita qualche smorfia da parte dei commensali. Con qualche sorpresa sgradevole, talvolta, a causa di un conto – al momento di estrarre il borsellino – che può ingenerare sorpresa e giudizi negativi.

Un mestiere non facile

Onore al merito, comunque, ai pescatori professionisti o semi-professionisti che però sono pochi, rari quasi come le mosche bianche: appena 12 quelli attivi sul Ceresio ma due in lista d’attesa a fronte di qualche anziano che non sa o non vuole mollare, mentre sul Verbano operano in 11. È un mestiere che non attira i giovani, duro per gli orari e le condizioni meteorologiche sovente proibitive in cui si è costretti a operare, da praticare perlopiù quale attività accessoria poiché le entrate (visti i considerevoli costi per attrezzature, natanti, e via elencando) incidono parecchio sul budget, e con «obblighi» tutt’altro che… leggeri in fatto di uscite sul lago e quantitativi minimi da registrare per mantenere la patente, sicché è una classe lavoratrice che va inesorabilmente invecchiando.

Le prospettive, insomma, sono tutt’altro che rosee e gli stessi interessati ne sono coscienti. Ma non sembrano esserci molte vie di uscita. La scomparsa (probabile in tempi medio-brevi) di questa sparuta «brigata» suscita una certa tenerezza e specialmente un forte rammarico, poiché è in forse un pesce insubrico nobile, un autentico «piatto del territorio» che invece altrove, come sul lago di Como, viene valorizzato e divulgato. Possibile che non ci sia qualche giovane volonteroso che sappia affrontare con polso questa sfida?