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Il dialogo? È uno spazio da costruire
Con la professoressa Sara Greco parliamo del valore delle parole con un’attenzione particolare alle relazioni familiari
Alessandra Ostini Sutto
Le relazioni sono costituite – tra le altre cose – da parole, anche quelle, ovviamente, che intercorrono tra i membri di una famiglia. Ciò non vuol però dire che enunciare parole equivalga ad avere un dialogo con l’altro; affinché ciò avvenga ci vuole iniziativa, che parta dall’adulto, ed impegno. «Lo stesso impegno che mette un architetto nell’elaborare un progetto; perché il dialogo è uno spazio da costruire, che va pensato e per farlo ci vogliono tempo ed energia», afferma Sara Greco, professoressa straordinaria di argomentazione presso la Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’USI e, da febbraio, direttrice dell’Istituto di argomentazione, linguistica e semiotica.
Interesse centrale della ricerca di Sara Greco – che è anche presidente della Società Svizzera di linguistica e chair della European Conference on Argumentation – è il dialogo argomentativo come alternativa al conflitto, in ambiti che vanno dai rapporti interpersonali alle controversie pubbliche, sul quale ha diretto progetti di ricerca e pubblicato libri ed articoli. Con lei abbiamo parlato, dal punto di vista di una linguista, del valore delle parole con un accento particolare sulle relazioni familiari.
Professoressa Greco, come definirebbe il «valore delle parole»?
In relazione a questo tema sono tre i termini, concatenati tra di loro, di cui parlare: strumento, valore e potere. Già Aristotele sosteneva che la retorica – la comunicazione, attualizzando i termini – è uno strumento, il quale può essere usato bene o male. Il valore delle parole sta quindi nel loro uso positivo.
Ci illustri un esempio di questo uso positivo.
Le parole vengono usate in tale modo quando servono a costruire qualcosa che prima non c’era. Se ci si pensa, tutta la nostra società è costruita su relazioni che a loro volta si basano sulle parole. Queste ultime costituiscono anche un potere dal momento che hanno consentito di cambiare la realtà. Un potere che, di nuovo, può pure essere usato in modo negativo.
Del potere delle parole c’è un’adeguata consapevolezza?
Sicuramente c’è una paura diffusa di quello che di male si può fare con la comunicazione, complici anche (ma non solo) i social media, spesso citati come esempio negativo. Manca invece la consapevolezza del fatto che si possa imparare a usare le parole in modo positivo, per esempio per ricostruire quello che è stato perduto a livello di relazione oppure come difesa dalle strategie negative. A riguardo, la mia materia, argomentazione, include un capitolo sul linguaggio manipolatorio, nel quale si insegna a difendersene.
Un altro aspetto sul quale manca consapevolezza è che le parole costituiscono solo metà della comunicazione; l’altra parte è l’ascolto.
E sull’ascolto ritiene non ci sia la giusta consapevolezza, è così?
In primo luogo andrebbe ricordato che i figli, anche piccoli, sono interlocutori e pertanto nel dialogo andrebbero ascoltati, in qualche modo, al pari degli adulti. In uno studio sull’argomentazione nei bambini finanziato dal Fondo nazionale svizzero emergeva invece la tendenza ad attribuire loro degli errori di ragionamento. Se le loro parole vengono però ascoltate con la dovuta attenzione, riconoscendo impliciti culturali e preconcetti che anche noi adulti abbiamo, ci si accorge che esse contengono piuttosto spunti di interpretazione della realtà semplicemente a volte diversi dalle nostre attese. Il tema dell’ascolto rimane importante con gli adolescenti, i quali, dirigendosi verso l’età adulta, necessitano di genitori che si mettano adeguatamente in gioco a livello di comunicazione.
Restando sul tema, durante l’adolescenza, c’è qualcosa in particolare cui i genitori dovrebbero prestare attenzione?
Di fronte a richieste che possono suonare bizzarre – banalmente quella di uscire senza giacca in inverno – bisogna che l’adulto impari a capire qual è la vera domanda. Spesso si tratta infatti di quelle che chiamo «domande mascherate», con le quali il ragazzo testa se l’adulto gli riconosce un ruolo di interlocutore, uno spazio nel dialogo, nel quale vi sia la possibilità di non accettare le premesse sulla base delle quali i genitori creano i loro ragionamenti, un po’ per routine, un po’ per convinzione, per potersi pian piano appropriare dei propri punti di riferimento. Si tratta quindi spesso di richieste di fiducia, di riconoscimento di un cambiamento che è fisiologico ma di cui i ragazzi sono i primi ad aver timore.
In questo discorso come si inseriscono le provocazioni?
Effettivamente le provocazioni sono una sorta di domanda mascherata, con la quale il ragazzo chiede se la rabbia che ha dentro ha spazio nella relazione. Detto ciò, se l’adulto risponde in modo altrettanto forte è come se gli dicesse di restare come prima, quando era un bambino. E questo, ovviamente, non è giusto, perché il ragazzo questo passaggio lo deve fare, anche se comporta delle emozioni negative.
Come dovrebbe quindi reagire un genitore?
Quando ci si accorge di essere stati punti sul vivo, quando si sente che non è il momento giusto o ancora quando il figlio adolescente si rivolge a noi con un tono che non apprezziamo, bisognerebbe evitare una reazione emotiva immediata, con la quale si rischierebbe di mandare il conflitto in escalation e far passare il messaggio che il comportamento adottato mette in crisi la relazione. Il tema può essere poi ripeso in un «momento opportuno» – concetto peraltro importante in questo ambito – per cercare di capire cosa c’era dietro quel comportamento o quella affermazione. Con questa reazione si fa inoltre capire al figlio che la relazione rimane, non si interrompe.
Con la sua attività e suoi lavori di ricerca, lei propone un modello di dialogo argomentativo, inteso come strada alternativa al conflitto. Di cosa si tratta?
L’argomentazione è sostanzialmente un dialogo ragionevole, dove si cerca di trovare una soluzione, la migliore, la più vera e la più giusta possibile, confrontandosi sulle ragioni e non sulla base della violenza, del potere o dell’inganno. Questa ragionevolezza dell’argomentazione non è però una razionalità fredda, ma tiene conto anche degli aspetti emotivi. Un esempio che mi piace fare è quello di quando durante il COVID eravamo soliti mettere la mascherina per andare a trovare i nonni. Questo è infatti un argomento che ha un aspetto di ragione ma anche uno di affetto, che sono legati tra di loro.
Un altro elemento importante nel dialogo argomentativo è il «decentramento»; un termine dello psicologo svizzero Jean Piaget, reinterpretato da Anne-Nelly Perret-Clermont e altri colleghi dell’Università di Neuchâtel, per esprimere l’idea che su una questione aperta ci possano essere posizioni diverse. Lasciare che l’altro possa proporre un’opinione, i suoi argomenti come pure aprire una discussione, secondo la Scuola di Amsterdam di argomentazione, è definita «regola della libertà» dell’argomentazione.
Concentrandoci sulla comunicazione familiare, come si insegna ai figli a dialogare in modo costruttivo?
Anzitutto è importante che loro ne facciano esperienza. Impareranno ad ascoltare quando noi li avremo ascoltati, per esempio. Importante è pure la questione della domanda: chiedere «perché?» – un interrogativo che apre un orizzonte – piuttosto che attribuire all’altro un pensiero. Un ulteriore aspetto linguistico che sta emergendo nella ricerca sui conflitti è la rilevanza del dare un nome alle emozioni, che possono così diventare un oggetto di dialogo. E questo è uno degli strumenti che l’argomentazione mette a disposizione – nel caso specifico degli adulti – per costruire spazi di dialogo.
Tornando al «fare esperienza», se i figli hanno modo di essere testimoni del fatto che su un disaccordo si può discutere, interiorizzeranno che c’è spazio anche per una loro eventuale espressione di non accordo. Di fronte invece a una situazione che non si riesce a risolvere, trovo sia corretto e – di nuovo – di insegnamento, chiedere aiuto. La famiglia non è infatti un meccanismo e non è quindi scontato che tutto funzioni sempre, nemmeno il dialogo. In questi casi, avere la possibilità di confrontarsi con altri, oppure rivolgersi ad altri per un aiuto può sicuramente rivelarsi utile.
Per quel che riguarda la comunicazione, cosa caratterizza quella dei ragazzi di oggi?
Che il ragazzo metta in discussione quello che i genitori danno per scontato c’è sempre stato ed è parte della crescita. Se il conflitto va prevenuto, questo disaccordo va invece custodito. Rispetto al passato, c’è chi mette in luce come quest’opposizione prenda toni a volte violenti. Da linguista, trovo che su quest’aspetto si possa lavorare, cercando di non reagire emotivamente ma di costruire uno spazio del dialogo. Più preoccupante mi pare invece quando l’opposizione è silenziosa e arriva ad aspetti di inerzia patologica o comportamenti lesivi su sé stessi, che purtroppo sappiamo essere in aumento. Non voglio sconfinare in un ambito che non è il mio, ma ritengo siano aspetti sui quali dovremmo interrogarci in ambito preventivo, per esempio su quanto spazio abbiamo costruito per l’espressione delle emozioni, per l’espressione dello stesso disaccordo, anche nelle sue forme non proprio velate ma pur sempre tipiche degli adolescenti.