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«Ma mi stai ascoltando?»
Il caffè delle mamme: i ricercatori hanno dimostrato che il cervello degli adolescenti è «programmato» per prestare maggior attenzione alle voci degli estranei, mentre ciò che dicono i genitori diventa poco più che un rumore
Simona Ravizza
Avvertenza per le mamme: la lettura di quest’articolo potrà creare frustrazione soprattutto in chi finora si è cullata nell’idea che già i feti nell’utero sono in grado di riconoscere la voce della madre ancor prima di nascere e che ai figli basta parlare con noi per gestire le ansie e le preoccupazioni causate dalle sfide quotidiane. Tutto vero, ma fino a una certa età! Con il Caffè delle mamme dello scorso ottobre ci siamo già rassegnate a un dato di fatto: l’età del dialogo con i figli è fino ai 12 anni. «I genitori devono sapere che la loro parola è significativa fino quest’età – è la triste realtà che ci ha sbattuto in faccia lo psicoanalista e filosofo Umberto Galimberti –. Poi si interrompe la relazione verticale genitore-figlio e comincia quella orizzontale con gli amici». Ma adesso dobbiamo confrontarci con un’altra verità: durante l’adolescenza i meccanismi del cervello dei nostri figli fanno sì che la nostra voce – nostra intendo proprio quella di noi madri – diventi poco più che un rumore!
La questione è venuta fuori a un Caffè delle mamme durante le vacanze di Pasqua al mare con mio marito Riccardo, una coppia di amici e i nostri figli 10enni: quelli grandi sono rimasti a casa da soli per sperimentare la loro libertà da 16-19enni. Il punto è che a nessuno di noi rispondevano al telefono anche solo per dire: «Tutto ok!». Un nervoso sfogato in infinite chiacchierate su come comportarci con questi benedetti adolescenti. Poi mi ricordo di avere letto qualche tempo fa uno studio dello psichiatra Daniel Abrams della Stanford University School of Medicine, pubblicato il 28 aprile 2022 su una delle più importanti riviste scientifiche del settore, «The Journal of Neuroscience», e rilanciato di recente dalla stampa italiana. La sua (ri)lettura è un colpo al cuore.
I partecipanti sono 46 bambini e adolescenti tra i 7 e i 16 anni a cui viene «scannerizzato» il cervello con la risonanza magnetica mentre ascoltano tre parole: teebudieshawlt, keebudieshawlt e peebudieshawlt. Il protocollo dello studio è approvato dal comitato di revisione istituzionale dell’Università di Stanford. Daniel Abrams e il suo team scelgono apposta tre termini senza senso in modo che i partecipanti non abbiamo degli stimoli condizionati dal significato emotivo che le parole potrebbero suscitare in loro. Le pronunciano la madre di ciascuno dei bambini e adolescenti coinvolti nello studio e altre due donne estranee. Ecco i risultati: mentre i bambini più piccoli mostrano una maggiore attività neurale (ossia aree del cervello che si attivano) per la voce materna rispetto alle voci estranee, gli adolescenti mostrano una maggiore attività neurale per le voci delle donne sconosciute. Sigh!
Il passaggio dalla voce prevalente della madre a quella delle due estranee avviene tra i 13 e i 14 anni. Tutto drammaticamente torna: non solo con i 12 anni siamo ormai verso la fine del processo educativo e formativo primario perché da quel momento le nostre parole rischiano di cadere nel vuoto, ma addirittura la nostra voce è un sottofondo rispetto a quella di due estranee. «Proprio come un bambino sa sintonizzarsi con la voce della propria mamma, un adolescente sa sintonizzarsi con nuove voci – dice Abrams –. Da adolescente uno non si rende conto che lo sta facendo. È semplicemente sé stesso: ha i propri amici e compagni e vuol passare del tempo con loro. Ma la sua mente è sempre più sensibile e attratta da voci sconosciute». L’autore senior dello studio, il direttore dello Stanford Cognitive and Systems Neuroscience Laboratory, Vinod Menón sottolinea: «È il segnale che un bambino a un certo punto diventa indipendente, e questo è accelerato da un impulso biologico sottostante che aiuta gli adolescenti a interagire con il mondo e a formare connessioni che consentono loro di essere socialmente pronti a muoversi al di fuori della famiglia».
La chiamano sana maturazione. È il salto che li rende pronti a volare verso le sfide del mondo. Al Caffè delle mamme ci domandiamo, però, che cosa ci sia di maturo nel fatto che la nostra voce probabilmente non sia neanche più un rumore, perché anche in casa i nostri figli hanno perennemente le cuffie sulle orecchie e verosimilmente non ci sentono proprio. Lo psicoanalista Massimo Ammaniti nel nuovo saggio I paradossi degli adolescenti (maggio 2024, Raffaello Cortina ed.) scrive: «L’adolescenza è un periodo contrassegnato da comportamenti e spinte inconciliabili che nei genitori suscitano incomprensioni e perplessità. L’adolescenza è un’età paradossale: è una fase di rottura rispetto al passato, eppure gli anni dell’infanzia continuano a condizionare il presente; gli adolescenti sono presi da loro stessi, eppure vivono per l’approvazione dei coetanei; sono più liberi, più indipendenti e più viziati che in passato, eppure dai loro occhi traspare sempre più spesso un malessere indefinibile. Si è convinti di aver capito quello che succede nella loro testa, ma poi procedono in un’altra direzione. Per molti genitori la soluzione più tranquillizzante è quella di avere con i figli adolescenti un rapporto amichevole, fatto di complicità e di confidenza. Di sicuro è un modo per evitare contrasti e conflitti, ma è ovvio che questa situazione ha dei riflessi sul carattere dei ragazzi: senza il confronto (e anche lo scontro) non si instaura quella dialettica che fortifica il loro carattere e stimola la loro autonomia. Non c’è altra strada che quella di accettare questi contrasti e attendere che col tempo siano loro stessi a scioglierli».
Morale: quando i nostri figli adolescenti sembrano non sentirci, non è semplicemente che non vogliono pulire la loro stanza o finire i compiti: il loro cervello non registra la nostra voce come faceva in età preadolescenziale. Quando gli adolescenti sembrano ribellarsi non ascoltandoci, è perché sono programmati per prestare maggiore attenzione alle voci al di fuori della loro casa. E a noi genitori che ci sentiamo frustrati e persi, non resta che farci coraggio: «Questo – ribadiscono Abrams e il suo team di ricercatori – è il modo in cui il loro cervello è cablato, e c’è una buona ragione per questo». Sarà, ma la fatica (immane) resta! Insieme alla voglia, a volte, di gridare per farsi non solo sentire ma anche ascoltare.