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«La tecnologia non è nemica del lavoro»

Viaggio nel mondo che cambia con Giuseppe Crivelli, fondatore della Clichés Color che, nata nel 1951 come ditta all’avanguardia, ha percorso tutte le fasi dell’evoluzione della stampa tipografica
/ 06/05/2024
Matilde Casasopra

«Sono un uomo fortunato. Sa perché? Perché ci sono loro. Li vede? Sono gli allievi e le allieve delle scuole di Massagno. Mi tengono tanta compagnia e riescono a farmi ancora vedere la parte bella del mondo, un mondo nel quale non mi ritrovo più perché ormai, quando esco, non conosco più nessuno. I miei amici, piano piano, uno dopo l’altro, se ne sono andati quasi tutti. Se non ci fossero questi ragazzini mi sentirei troppo solo». Sorride Giuseppe Crivelli accogliendoci nella sua casa che si affaccia sul cortile delle scuole. Sorride mentre ci fa accomodare su una delle poltroncine disposte attorno al tavolo rotondo sul quale ha già preparato le tazzine per il caffè che gusteremo insieme mentre ci racconterà la sua storia che è un lungo viaggio attraverso quel Ticino che in questi ultimi 70 anni è stato percorso da cambiamenti epocali. Sì, avete letto bene: 70 anni perché lui, «papà Crivelli», il prossimo 19 luglio compirà 95 anni. Ne aveva 22 quando nel 1951 aprì, con lo zio Luigi, la Clichés Color in via Zurigo/via Vanoni a Lugano che divenne, negli anni, una vera impresa famigliare.

La seconda guerra mondiale però, nel 1951, era finita solo da sei anni…
È vero e io, quando nel 1945 finì la guerra, avevo appena finito la scuola di commercio che avevo frequentato all’Istituto Elvetico. Mio padre decise che valeva la pena imparassi il tedesco e così mi mandò a Vaduz. Allora, per arrivarci, era necessaria la carta d’identità. Ho solo un ricordo chiaro e nitido di quell’esperienza. Quando arrivai nel collegio dove sarei rimasto per un anno – tornai a casa solo a Natale e a Pasqua – scoprii che nella palestra della scuola c’erano parecchi prigionieri russi giunti al confine austriaco con l’esercito tedesco in ritirata dai Paesi dell’Est europeo. Era il mese di settembre. Qualche mese dopo i prigionieri furono prelevati dai militari russi di stanza in Austria, ma non so dirle cosa ne fu di loro. So che, di ritorno a casa nel giugno del ’46, mio padre mi disse che, per imparare il francese, sarei andato a La Chaux-de-Fonds. Fu lì che con lo zio Luigi ho incominciato la mia attività di «tireur des épreuves» e è in definitiva in questo modo che mi sono avvicinato al «cliché» che, come spiegano i dizionari, è la matrice zincografica – lastra di zinco incisa con l’acido nitrico – per le illustrazioni da inserire col testo nelle forme di stampa tipografiche.

E lei resta a La Chaux-de-Fonds fino al 1951?
No, no. Torno in Ticino nel 1948. Il mio primo lavoro lo trovo come impiegato da Cometta/Radio Columbia dove gestisco la contabilità, ma… mi fermo poco. Mi pagavano davvero pochissimo (180 franchi al mese). Pensi che anche il fiduciario che curava per la ditta la dichiarazione delle imposte aveva suggerito loro di darmi un aumento, ma… non servì a nulla e così me ne andai a lavorare per la Perazzi confetti. Mio zio Luigi, quello che viveva a La Chaux-de-Fonds e lavorava per la Cliché Lux di Alexandre Courvoisier, nel frattempo decise di trasferirsi in Ticino. È lui che, avendo acquisito dimestichezza con i clichés, sia quelli grafici sia quelli a mezzatinta – in quegli anni i clienti più importanti della Cliché Lux erano le varie case orologiere – apre la Clichés Color. Io lascio Perazzi e vado a lavorare con lui che però, dopo pochi mesi, per ragioni di salute torna nel canton Neuchâtel. Mi ritrovo così, a 22 anni, a guidare questa nuova impresa. Sono anni incredibili. Noi, all’inizio, producevamo unicamente clichés in bianco e nero, sia da disegni sia da fotografie. Il mondo della stampa, però, in quegli anni era in fermento e progrediva al seguito dello sviluppo economico generale. Ovviamente io ero ben contento di potermi adattare alle esigenze della clientela e, grazie anche al fatto che due ditte – la Kodak e l’Agfa – stavano perfezionando prodotti per la separazione dei quattro colori fondamentali (blu, magenta, giallo e nero per le ombre), decisi che era giunto il momento, anche per noi, di iniziare esperimenti in quel settore per essere pronti a un cambiamento che… sì, si sentiva nell’aria che stava per arrivare. È all’inizio degli anni Sessanta che il colore entra ufficialmente tra i prodotti della nostra ditta.

Perché era importante per voi proporre clichés a colori?
Perché gli stampati stavano pian piano passando dal bianco e nero al colore e tra questi stampati c’erano anche i giornali. Detta così sembra una cosa di poco conto, ma non lo era affatto. Ricorderà che gli avvenimenti sportivi – allora fortunatamente solo calcio e ciclismo – si svolgevano di domenica e che, il lunedì mattina in edicola, i giornali facevano la differenza anche attraverso le foto proposte per illustrare lo sport. I giornali, in quegli anni, erano tra i nostri principali clienti e lei pensi cosa comportava per una ditta come la nostra, che lavorava per sei giorni su sette per riviste, prospetti, libri e imballaggi, dover essere operativa anche la domenica o tardi la sera. Tutto questo non durò molto tempo, ma durò fin quando nelle tipografie si fece largo il sistema di stampa offset, ovvero il sistema di stampa indiretta: immagini copiate su lastre d’alluminio dalle pellicole appositamente allestite dai fotolitografi e quindi trasferite sui cilindri di stampa. In pochi anni, come Clichés Color, abbiamo visto diminuire la produzione dei classici clichés di zinco e siamo stati obbligati a potenziare l’esecuzione di fotolito. A tutto ciò va aggiunto che a partire dalla metà degli anni Sessanta, i principali giornali si dotarono di macchinari che li resero indipendenti da noi. Seppure con un po’ di malinconia per le avventure e le emozioni che quel sistema di suddivisione dei compiti ci aveva regalato, per me e i miei collaboratori avere la domenica libera fu un gran regalo.

Signor Crivelli, se le chiedessi di raccontarmi una di quelle avventure che, ancor oggi, le provocano emozione e malinconia cosa mi racconterebbe?
Senza dubbio le racconterei la giornata del 30 agosto del 1953. Il giorno in cui Fausto Coppi, a Lugano, vinse il campionato del mondo di ciclismo dando oltre sei minuti al secondo classificato e vestendo la maglia iridata davanti a centinaia di migliaia di persone giunte soprattutto dall’Italia nella speranza – o nella certezza? – di assistere al trionfo del Campionissimo. È stata una giornata straordinaria. Ricordo che sulla Crespera – dove Coppi fece la differenza – c’erano i tifosi italiani che con il fazzoletto pulivano la strada per evitare vi fossero sassolini o qualsiasi altro tipo d’ostacolo. Ma… non è che io avessi il tempo per stare a guardare la gara. Quel pomeriggio, per le 16.00, i clichés dovevano essere pronti perché è per quell’ora che nella redazione dello «Sport Ticinese» si attendeva dalla radio il risultato finale. Il tempo di comporre il titolone e l’ordine d’arrivo, inserire i clichés e poi andare in stampa con l’edizione straordinaria da dare agli strilloni dislocati in vari punti della città. Fu una corsa contro il tempo ben riuscita. Era però necessario raggiungere tutto il pubblico. Io avevo la Lambretta. Romeo Zali mi affidò un pacco di copie dicendomi: «Tu vai alla stazione e consegnale al tale che le venderà sul treno verso Chiasso». Quando vi arrivai trovai una vera e propria muraglia umana. Io con il mio pacco di giornali da consegnare allo strillone ho cominciato a chiedere di farmi passare. Un signore si volta e mi chiede: «Perché vuoi passare?». Gli spiego che devo consegnare le copie dell’edizione straordinaria della vittoria di Coppi. A quel punto è scoppiato il caos: dovetti mettere il pacco sotto un piede e distribuire le copie a 50 lire l’una. In pochi minuti si formò una selva di braccia alzate e di facce rivolte all’insù che inseguivano il movimento delle copie. Quando lo strillone assegnato al treno per Chiasso mi ha raggiunto ho potuto consegnargli solo un mucchietto di copie e svuotargli le mie tasche piene di lire. Fu in quell’occasione che capii l’importanza del nostro lavoro.

Un lavoro che, se ho ben capito, ha continuato a modificarsi con il passare degli anni.
Eh sì che si è modificato e, con il lavoro, sono mutati anche i clienti. Non più le redazioni dei giornali, ma grafici molto esigenti – Kiki Berta, Romano Chicherio, Orio Galli, Emilio Gilardi, Armando Losa, Sergio Michels, Francesco Milani, Emilio Rissone, Fulvio Roth – e professori quali Bruno Monguzzi, Mario Agliati, Giorgio Orelli, Piero e Giovanni Bianconi; ingegneri, architetti e nuove imprese che avevano in casa i loro uffici pubblicitari. Ma così come il cambiamento dal bianco e nero al colore era nell’aria a metà degli anni Cinquanta, a metà anni Ottanta nell’aria si è cominciato a percepire il cambiamento indotto dalla tecnologia, un cambiamento che prima della fine del millennio ci ha portato via tutto il lavoro. A inizio anni Novanta alla Clichés Color lavoravamo in 26 (c’erano anche i miei due figli: Stefano, che aveva studiato in una scuola grafica di Verona e che, sulla base di quanto appreso, ha saputo garantire il successo tecnologico dell’azienda, e Francesco per la parte amministrativa). Prima del 2000 fui costretto a licenziare una parte del personale, mentre un’altra parte, i due figli compresi, avevano già scelto altre occupazioni. È vero, io avevo già 71 anni, ma dover salutare persone che avevano condiviso con me 30-40 anni di lavoro molto impegnativo è stato ugualmente duro. Molto duro.

La tecnologia è dunque nemica del lavoro? Glielo chiedo perché adesso, nell’aria, c’è il cambiamento indotto dall’intelligenza artificiale…
No, la tecnologia non è nemica del lavoro. Mentirei se lo affermassi e sa perché? Perché la tecnologia ha migliorato il prodotto. La composizione a video ha permesso di curare i dettagli e soddisfare le esigenze di ogni singolo professionista in modo impeccabile. Non di rado, nei primi tempi, quando la tecnologia era ancora poco diffusa, alcuni clienti venivano da noi e, insieme, costruivamo al monitor il prodotto desiderato: una scritta ombreggiata e colorata su un’immagine non troppo nitida e, magari, con un pizzico di magenta in più… Ma è durato poco. Quando ho dovuto licenziare, diversi miei collaboratori sono stati però assunti da clienti che avevano scelto la via dell’home-made.

E che cosa ne è stato della Clichés Color?
L’hanno rilevata quattro ex-collaboratori. Nei primi anni sono riusciti a stare a galla, ma poi le cose si sono fatte sempre più difficili. Uno di loro ha cambiato professione. Adesso fa il giardiniere. Altri due sono andati in pensione e ora c’è una sola persona che porta avanti nome e attività. Insomma, la storia della Clichés Color sta per finire.

Il vociare allegro di allievi e allieve entra in casa dalla finestra aperta sul cortile mentre stiamo ancora parlando. Papà Crivelli sorride. «Tra poco suoneranno le campane della chiesa. È quasi mezzogiorno. Torni a trovarmi» dice stringendomi la mano. Lo saluto e lo ringrazio. So che… sì, tornerò.