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APPROFONDIMENTO
Cliccando sul seguente link si può leggere l'approfondimento di Maria Grazia Buletti: Il complesso puzzle degli studi sul Long Covid
«Quando sono sotto stress il mio cervello va in tilt»
Tre testimonianze di pazienti ticinesi sulla «seconda vita» post Covid
Vittoria Vardanega
Convivere con il Long Covid comporta molte rinunce e la necessità di inventarsi ogni giorno nuove strategie per aggirare i limiti imposti dalla malattia. Tre pazienti ticinesi raccontano la loro esperienza.
Cristina, Katja e Roman sono pazienti Long Covid, una malattia pressoché invisibile, che si presenta con una grande varietà di sintomi e di cui si sa ancora molto poco. Gli operatori sanitari in Ticino hanno preso sul serio sin da subito la loro condizione, ma fuori da ambulatori e ospedali si sono spesso scontrati con incredulità e scetticismo.
Cristina Paonessa, infermiera presso l’ospedale di Locarno, sapeva che prima o poi avrebbe contratto il coronavirus. Quando si ammala, a dicembre 2020, i sintomi sono severi: febbre, svenimenti e saturazione bassa. «Avevo bisogno dell’ossigeno e non riuscivo ad alzarmi dal letto», ricorda. «Ma non volevo andare in ospedale: avevo visto troppe persone entrare e non uscire più». Dopo una lunga convalescenza, cominciano a tornarle le forze. Cristina pensa di essere guarita. «Mi sbagliavo». Inizia a notare dei vuoti di memoria significativi: intere conversazioni, avvenute poco prima, svaniscono nel nulla. A confermare i suoi sospetti sono i test di concentrazione e memoria presso l’ambulatorio Long Covid di Locarno, di cui è stata la prima paziente. «Ho riscontrato delle difficoltà che prima non c’erano. Mi sono spaventata, più di quanto mi aveva spaventata la mancanza di fiato durante il Covid».
Cristina diventa anche molto sensibile agli stimoli esterni, tanto che fare la spesa comporta uno sforzo non solo fisico, ma soprattutto mentale: «Le luci, i rumori, gli spazi ristretti, la presenza di altre persone – tutto mi dava fastidio, mi confondeva così tanto che non riuscivo a concentrarmi su quello che stavo facendo». Dopo oltre tre anni i sintomi sono migliorati, ma non scomparsi. Si acuiscono nei momenti di sovraccarico mentale o con la stanchezza a fine giornata. Racconta che ancora oggi basta un imprevisto per mandarla in confusione, mentre un tempo sarebbe stata in grado di gestirlo facilmente. «Il mio cervello va in tilt, è come guardare una pagina bianca». Praticare la mindfulness, una forma di meditazione, la aiuta a mantenere la calma quando fatica a ricordare qualcosa o a concentrarsi.
«Le persone mi vedono sorridente e pensano automaticamente che stia bene, ma è solo il mio carattere: cerco sempre di vedere il lato positivo». Cristina si sistema una ciocca di capelli viola dietro l’orecchio e indica il rossetto acceso. «Mi piacciono i colori. Lo mettevo anche durante la pandemia. Quando abbassavo la mascherina, il sorriso delle persone che lo notavano era rincuorante. In ospedale avevamo bisogno di ricordarci la normalità». Quando è tornata al lavoro ha preferito non condividere con i nuovi colleghi la sua condizione: «Avevo paura di passare per una che ha poca voglia di fare. Inventavo scuse, dicevo di avere un forte mal di testa». Perché, spiega, è più facile credere a quello che al Long Covid.
La vita di oggi è diversa rispetto a quella prima della malattia. «Mi piaceva moltissimo leggere, ma ho dovuto rinunciare, le parole mi sembrano slegate, perdo il senso della storia», spiega. «Sono passata agli audiolibri. È così un po’ con tutto: posso ancora fare tante cose, ma con limitazioni più o meno grandi, che si sommano e con il tempo arrivano a pesare».
Anche Katja Huser, 55 anni, ha dovuto rinunciare a molte delle sue passioni a causa del Long Covid. «Avevo una vita attiva. Mi piaceva viaggiare e fare snorkeling, lavoravo come consulente in banca», racconta. Katja contrae il coronavirus a marzo 2022 e molti dei suoi sintomi persistono a distanza di settimane: difficoltà respiratorie, stanchezza estrema e afonia. La sua dottoressa sospetta subito che si tratti di Long Covid, ma la diagnosi arriva solo dopo diverse visite e avendo escluso disturbi di altro tipo. Ad oggi, infatti, non esiste un test unico che permetta di diagnosticare la malattia.
Katja è la prima paziente Long Covid della clinica di riabilitazione Hildebrand di Brissago. Il trattamento prevede sessioni di fisioterapia, logopedia, ergoterapia e neurotraining. La ripresa è graduale ma costante: prima ritorna la voce, poi migliorano anche la capacità respiratoria e la concentrazione. Dopo qualche mese, però, la notizia improvvisa di licenziamento porta a un significativo aggravarsi dei sintomi. «Ho capito che i tracolli possono essere anche emotivi e non solo fisici. Ci ho messo mesi a recuperare», ricorda. Oggi ha un nuovo impiego a tempo parziale. La sua routine quotidiana è un costante equilibrio tra il desiderio di essere attiva e i limiti imposti dal Long Covid. «La mattina “rotolo” dal letto, e azioni come lavare i capelli o svuotare la lavastoviglie comportano uno sforzo enorme», racconta. Usa il deambulatore se deve camminare più di qualche passo e soffre di dolori neuropatici. Per gestire la fatica ha adottato la strategia del pacing – una tecnica che prevede la pianificazione di pause regolari per evitare di esaurire completamente le energie. «Sono molto supportata dalla mia famiglia – dice – ma è dura anche per loro, perché non posso esserci come prima». Katja racconta anche lo scetticismo delle persone quando spiega perché usa il deambulatore. «Pensano che sia esagerata, che basti uscire e fare due passi per riprendersi».
«Si fa in fretta a rendersi conto di non poter lavorare», racconta Roman Gomringer, bavarese in Ticino dal 2004 e affetto da Long Covid. «Sono le attività che prima davi per scontate e che adesso sono impossibili a sorprenderti», come cenare al ristorante vicino casa con la compagna e gli amici o gustarsi un bicchiere di birra.
Gli attacchi per Roman cominciano poco dopo l’infezione a marzo 2022: tremore violento in tutto il corpo, «così forte che non riuscivo a tenere una tazza in mano». All’inizio succede quasi tutti i giorni, e ogni attacco dura fino a due ore. «Adesso va meglio, ma so che potrei avere un nuovo episodio in ogni momento». Racconta del supporto ricevuto dalla sua compagna e dagli operatori sanitari, ma anche dalle persone di Ascona, che lo hanno sempre soccorso prontamente quando ha avuto degli attacchi in pubblico.
«Ero carpentiere, spostavo 6mila chili al giorno. Dopo l’infezione invece mi serviva un’ora per stendere 4 asciugamani». A volte la frustrazione si fa sentire, ammette. Per un momento lo sguardo di Roman diventa assente, la sigaretta abbandonata tra le dita. «Non è facile abituarsi al cambiamento. Ci ho messo un anno per riuscire a camminare 300 metri, da casa fino a qui. Ma – dice, riscuotendosi dai suoi pensieri – cerco di essere contento di ogni conquista. È stata la mia fisioterapista ad aiutarmi a cambiare mentalità».
Oggi la speranza di guarire li accomuna, anche se Cristina dice di aver faticato ad accettare di avere una malattia. Roman vorrebbe trovare un nuovo impiego nei prossimi mesi. Katja spera soprattutto di continuare a migliorare. «Nella sfortuna, mi sento fortunata», conclude. «Quella del Long Covid la considero la mia seconda vita».