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Come evitare la cronicizzazione dei sintomi
Nel 2023 «Nature Reviews Microbiology» ha raccolto tutte le sindromi finora riconosciute come conseguenza a distanza dell’infezione da Covid e ha pubblicato una ricerca che fa chiarezza: «La sindrome da Long Covid interessa prevalentemente pazienti di qualsiasi età (più frequentemente tra 36 e 50 anni), non ospedalizzati e con malattia da lieve a moderata». Per quanto attiene ai disturbi cognitivi nel Long Covid: «Sono della stessa entità dello stato di ebbrezza da intossicazione da alcol, o possono essere paragonati a dieci anni di invecchiamento cognitivo. Altri quadri clinici comprendono convulsioni, mente annebbiata, demenza e anche psicosi che si può manifestare nel 26% dei casi a un anno dalla guarigione». Tutti in gran parte legati alla risposta immuno-infiammatoria e ai danni vascolari, tendono a comparire settimane o addirittura mesi dopo la fine della fase acuta.
«Il Covid-19 non è solo una malattia respiratoria; colpisce anche il cervello e può provocare disturbi neurologici gravi se non curati tempestivamente», così il professor Stefano Pallanti dell’Istituto di Neuroscienze (Firenze), che suggerisce un percorso per evitarne la cronicizzazione. «Più del 40% dei malati ha sviluppato gravi disturbi cognitivi con la SARS (precedente sindrome respiratoria acuta da Coronavirus). A distanza di qualche anno, ci è stato possibile osservare come queste complicanze si siano cronicizzate se non curate adeguatamente e tempestivamente. A distanza di quattro anni si è evidenziato come questi soggetti non siano riusciti a riprendere una vita normale e tornare al lavoro».
A questo proposito, uno studio pubblicato sulla rivista «The Lancet Psychiatry» (https://lc.cx/M33P7i) ha evidenziato che quasi una persona su tre, tra coloro che hanno contratto il SARS-CoV2, sta sviluppando disturbi neurologici dovuti al Long Covid. E già nel 2020 il professor Pallanti sottolineava l’importanza di riconoscere nelle fasi iniziali i sintomi neuropsichiatrici legati al Covid per evitarne la cronicizzazione, riconoscendone il carattere non solo psicologico ed evidenziando l’effetto negativo del virus sul cervello: «Agisce mediante meccanismi di infiammazione e alterazione della risposta immunitaria».
L’aspetto di «neurotropismo» delle prime ondate è riassunto dal neurologo Paolo Rossi della clinica Hildebrand di Brissago: «Le mutazioni del virus hanno cambiato la sua natura e, se compariamo le prime tre ondate epidemiche, l’incidenza neuro-Covid declina significativamente nel tempo: le mutazioni hanno reso il virus certamente meno “maligno”, probabilmente anche nel contesto neurologico. Da neurologo, potrei fare una speculazione ipotizzando che quando il virus era più “neurotossico” abbia creato una sorta di fattore di rischio per patologie degenerative del sistema nervoso centrale».
INTERVISTE
Cliccando sul seguente link si possono leggere le interviste di Vittoria Vardanega: «Quando sono sotto stress il mio cervello va in tilt» – Tre testimonianze di pazienti ticinesi sulla «seconda vita» post Covid
Il complesso puzzle degli studi sul Long Covid
Le complicanze a livello cerebrale che si sono sviluppate a seguito del virus SARS-CoV2 sono oggetto di varie ricerche neurologiche a livello internazionale
Maria Grazia Buletti
È la conclusione dei maggiori studi internazionali: il Long Covid colpisce persone di tutte le età e comprende un ventaglio di effetti avversi sulla salute, post-acuti e a lungo termine, causati dall’infezione. L’autorevole «Science» (rivista scientifica pubblicata dall’American Association for the Advancement of Science) sottolinea l’importanza di accogliere la crescente preoccupazione e rimarca l’impegno profuso da più gruppi di ricercatori, il cui obiettivo è raccogliere sempre di più e meglio informazioni sulla condizione delle persone con Long Covid e sugli effetti di vasta portata che il virus ha prodotto, compreso il rischio di sviluppare altre malattie croniche.
Il legame tra Covid-19 e i sintomi neurologici è quanto gli studiosi si prefiggono di sondare. A conferma della consapevolezza (maturata durante la prima fase della pandemia) della correlazione tra infezione e problemi a livello cerebrale, infatti, sempre più numerosi studi di questi ultimi mesi si sono concentrati sul Long Covid (sintomi successivi all’infezione e sequele del virus) a medio e lungo termine (settimane, mesi e anni).
Al recente Congresso nazionale della Società italiana di neurologia, il professor Carlo Ferrarese, direttore del Centro di neuroscienze di Milano (Università degli studi di Milano-Bicocca) ha affermato che «in particolare, nel corso dell’ultimo anno sono emerse numerose segnalazioni di possibili ripercussioni a distanza dell’infezione. Dagli studi autoptici si evince una possibile invasione da parte del virus nel sistema nervoso centrale, ma la maggior parte del danno sull’organismo è in relazione ai meccanismi che regolano il sistema vascolare e i processi infiammatori». Ciò significa che il virus SARS-CoV2 può innescare l’attivazione di una tipologia di cellule abbondantemente presenti in tutte le regioni del sistema nervoso centrale, dando vita a un meccanismo noto come «neuroinfiammazione».
Dal canto suo, lo specialista in neurologia Paolo Rossi (Direttore sanitario e Primario alla clinica Hildebrand Centro di riabilitazione Brissago) ripercorre gli ultimi quattro anni: «Nella tempesta iniziale è presto maturata la percezione che la malattia da Covid-19 facilitasse nettamente l’insorgenza di disturbi neurologici». Molti i segnali del tropismo del virus sul sistema nervoso centrale: «A cominciare dai sintomi della perdita di olfatto e gusto evidenziati dagli studi in un’alta percentuale di pazienti, in concomitanza ad altri disturbi del sistema nervoso centrale».
Neuro-Covid-Italy
Inequivocabili i numeri: «Lo studio Neuro-Covid-Italy (pubblicato su “Neurology”, rivista scientifica internazionale e organo di stampa ufficiale della American Academy of Neurology, 2023, primo autore Simone Beretta) riguardava 52’759 persone delle quali ben 1856 hanno presentato sintomi neurologici. Fra questi, i più significativi sono 25% di encefalopatia (ndr: sofferenza del cervello che si esprime prevalentemente con disturbi di vigilanza e cognitivi in cui il paziente è più rallentato) e perdita o riduzione di olfatto e gusto (20%)».
È in linea la ricerca pubblicata su «The New England Journal of Medicine» con 800mila persone (di cui 142mila hanno risposto) sollecitate sui sintomi cognitivi: «Molti lamentano una “nebbia cognitiva”, sintomo identificato in corso di pandemia come una generica correlabile all’encefalopatia». È un segnale importante, spiega Rossi, più frequente all’esordio della malattia e poi più comunemente descritto dai pazienti durante il cosiddetto Long Covid con le seguenti implicazioni: «Tornando allo studio italiano, il 27% dei 1856 intervistati manifesta sintomi lievi persistenti a lunga distanza, identificabili con disabilità leggere che non interferiscono con la capacità di svolgere le attività del vivere quotidiano, ma che cambiano la capacità di agire della persona». Altro discorso, riprende Rossi, sono i sintomi debilitanti e invalidanti nella vita quotidiana: «Questi sono presenti in alta percentuale in quei pazienti che hanno avuto complicanze maggiori come ad esempio un ictus. Ma il Long Covid neurologico raramente porta a una disabilità che impedisca un vivere quotidiano (lavarsi, vestirsi, camminare e via dicendo). Piuttosto, nel paziente determina una diminuzione della capacità di agire, con uno spettro variabile».
L’aspetto psicologico
D’impatto è l’aspetto psicologico nel contesto delle diverse ondate pandemiche sui tre anni, come spiega Paolo Rossi: «In Clinica Hildebrand abbiamo riassunto questi aspetti nella nostra pubblicazione Ruolo predittivo di fatigue e fattori neuropsicologici nel recupero funzionale delle persone con Covid in forma severa, comprendendo che all’inizio del percorso riabilitativo dei nostri pazienti la sofferenza psicologica è più evidente in coloro che avevano avuto forme gravi di malattia e un vissuto e un’esperienza di consapevolezza del rischio di morire, con una conseguente fisiologica situazione di prostrazione psicologica». Egli sottolinea che anche chi è rimasto a casa tra il 2020 e il 2021, con forme di Covid da lievi a moderate, ha fatto i conti con l’isolamento personale psicologicamente destabilizzante: «Un aspetto non del tutto quantificabile, una nebbia cognitiva che sfugge in parte alla rigida classificazione di un’entità di danno, ma che deve essere tenuto in considerazione nel periodo medio-lungo e nel decorso del Long Covid».
Il profilo dei pazienti
Così Rossi riassume il profilo dei pazienti con Long Covid: «Quasi tutti hanno alle spalle la malattia delle prime ondate, quando era pregnante la consapevolezza che potesse essere mortale». Un vissuto paradossale che lo porta a osservare che «allora esisteva solo il Covid, oggi è come se non ci fosse per niente: ecco che psicologia, psichiatria e neurologia si sovrappongono in maniera chiara, anche nella presa a carico del paziente con Long Covid». Conclusioni condivise pure dallo studio Neurocovid patrocinato dalla Società Italiana di Neurologia: «Si è notato il cambiamento delle ripercussioni del Covid durante le differenti ondate: i sintomi a distanza si sono fortunatamente ridotti, con una prevalenza che dall’8% della prima ondata è scemata nel corso del tempo da 5% fino al 3% nell’ultima fase della pandemia». È emerso pure che: «Nella maggior parte dei casi c’è stato un recupero funzionale nel corso delle prime settimane e mesi».
Si conclude però che i problemi neurologici che maggiormente hanno impattato a distanza di tempo riguardano difficoltà di attenzione e di memoria. La presa a carico riabilitativa che tocca il nostro territorio, così come una lettura del quadro generale sul destino di pazienti con Long Covid al sistema nervoso centrale, ci sono descritte da Rossi e dall’esperienza maturata nella Clinica Hildebrand a Brissago: «Un ruolo predittivo sulla risoluzione dei deficit neuropsicologici nel recupero funzionale era inizialmente ancora più difficile di oggi da delineare, ciò potenziava l’importanza di dare un significato positivo alla riabilitazione».
Interessanti gli studi effettuati dal nosocomio durante la seconda ondata: «Dei 66 pazienti giunti da noi con quadri di disabilità post Covid da moderata a severa (fra i quali circa l’88% aveva alti livelli di fatica cognitiva e fisica), circa il 17% lamentava depressione e il 23%, sintomi legati all’ansia».
Risultati post riabilitativi
Confortanti i risultati post riabilitativi: «Questi pazienti mostravano poi un significativo calo del grado di disabilità non solo motoria, ma soprattutto cognitiva». Complice del risultato confortante è la presa a carico interdisciplinare del Long Covid, dove la coordinazione dei vari attori sanitari (neurologo, neuropsicologo, fisioterapisti, ergoterapisti) risulta paritetica e necessaria, pure confermata dallo studio pubblicato nel «The New England Journal of Medicine», che ripone ancora migliori prognosi negli ulteriori monitoraggi di questi pazienti.
Rossi conclude: «Abbiamo conferma che pazienti con disabilità fisica importante hanno una concomitante fatica cognitiva nella misura dell’88%; per condurre a un recupero significativo del paziente, la presa a carico deve essere globale e interdisciplinare. A maggior ragione è dunque necessario considerare proprio gli aspetti cognitivi, per avere successo nel percorso riabilitativo».