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Una tragedia che ha segnato una comunità

Cento anni fa, la notte del 23 aprile 1924, alla stazione di smistamento di San Paolo a Bellinzona si verificò uno dei più gravi disastri ferroviari della Svizzera, con quindici morti e numerosi feriti
/ 22/04/2024
Romano Venziani

Quella sera, Attilio aveva preso posto come al solito al grande tavolo della cucina attorniato da tutta la famiglia. La moglie Margherita, con in grembo l’ultimo nato, che portava il nome del padre e non aveva nemmeno un anno, e gli altri quattro figli. Rita, la maggiore, di quindici anni, Elvira di sei, Remo di cinque e Frida di tre anni.

Era di turno quella notte, Attilio, e così avevano mangiato presto, con fiammate di luce che filtravano dalla finestra disegnando rosse geometrie sul pavimento. E niente avrebbe potuto fargli immaginare, anche solo lontanamente, che quella sarebbe stata la sua ultima cena.

Uscito di casa, si era soffermato a osservare le mucche, arrivate ciondolanti dal viottolo, la Caraa Marscia, che ora bevevano tranquillamente lunghe sorsate di acqua della fontana. Poi aveva inforcato la bicicletta ed era partito, calcandosi in testa il berretto e alzando il bavero della giacca. Era una serata limpida, ma la temperatura in tutto il giorno non aveva superato gli undici gradi, nonostante si fosse quasi alla fine di aprile.

Attilio De Gottardi, di Lumino, faceva il ferroviere e quella notte doveva entrare in servizio a Bellinzona come fuochista sul vagone-riscaldamento del treno Chiasso-Basilea. Il convoglio, il 51 bis, trainato da due locomotive, comprendeva anche le carrozze internazionali provenienti da Milano, dirette a Berlino, ed era giunto in stazione con un ritardo di quarantasei minuti. E questa era stata la prima fatalità.

A Bellinzona, la formazione del treno viene cambiata. Dietro alle due locomotrici, il cosiddetto vagone di protezione, vuoto, è sostituito dal vagone-riscaldamento, dove prendono posto Attilio e Stefano Scesco, fuochista di Biasca, il quale, terminato il servizio, preferisce tornare a casa in compagnia del collega e non sistemarsi in una carrozza passeggeri. Seguono poi un vagone germanico di prima e seconda classe illuminato a gas, diretto a Berlino, uno delle Ferrovie di Stato italiane, con destinazione Basilea, e altre sei carrozze, tra cui il vagone letto Genova-Basilea.

Alle 2.25, il capostazione Federico Schaad fischia la partenza, il 51 bis si mette in moto e sferragliando prende velocità lasciando Bellinzona di nuovo avvolta dal silenzio. Sui locomotori il rumore invece è assordante e nessuno si accorge del capostazione, che si affanna correndo lungo i binari, soffiando nella sua trombetta e agitando la lanterna, da cui si sprigionano fiochi lampi di luce rossa.

Poche centinaia di metri dopo, all’altezza della stazione di smistamento di San Paolo, Carlo Buffi, macchinista della prima locomotiva, e Pietro Boni, fuochista, che lo assiste, si accorgono dell’arrivo di un convoglio proveniente da nord, a cui stanno per tagliare la strada. Inutilmente Buffi aziona i freni d’emergenza, ma è troppo tardi. Si butta dal treno in corsa e, un attimo dopo, c’è lo schianto.

Mentre i locomotori e le carrozze di testa s’impennano, un tremendo boato scuote la città addormentata. Lo scontro ha spaccato i serbatoi del gas del vagone tedesco, che si è incastrato in quello del riscaldamento ed è esploso, innescando un pauroso incendio, che ridurrà in cenere tre carrozze.

È una scena apocalittica, quella che si presenta ai soccorritori arrivati tempestivamente sul posto. Le fiamme che s’innalzano dai vagoni incendiati lacerano un’oscurità inzuppata di fumo e di grida, mentre il suono delle campane della Collegiata e di Palazzo civico si diffonde sulla città come un cupo presagio. Le locomotive sono ormai un groviglio di lamiere e, lungo i binari, sono disseminati rottami e brandelli di corpi dilaniati e carbonizzati.

All’origine del disastro, il concatenarsi di una serie di fatalità, negligenze, errori di manovra e di comunicazione, a cui vanno ad aggiungersi i lavori non ancora conclusi del nuovo impianto centrale elettrico degli scambi, così come la malaugurata presenza del vagone tedesco illuminato a gas (un tipo di vagone allora vietato in Germania, ma ancora usato sporadicamente).

Quella notte, due convogli provenienti da nord sono attesi a Bellinzona. Il treno merci 8573, per il quale è già stato azionato lo scambio per deviarlo alla stazione di smistamento di San Paolo, e l’espresso 70, proveniente da Basilea e diretto a Chiasso. Visto il ritardo del primo, ad Ambrì-Piotta si accorda la precedenza al treno passeggeri, ma la comunicazione dell’avvenuto cambio si ferma a Biasca e non giungerà mai a destinazione. Quando il capostazione Schaad sente la campana che annuncia l’arrivo di un treno da nord, chiama Claro per sapere di quale si tratta. Gli rispondono che è l’espresso 70, allora lui avvisa lo scambista per telefono, ma quest’ultimo non arriverà in tempo a rimettere lo scambio nella posizione dritta (l’operazione era ancora fatta a mano). Schaad cerca di rincorrere e arrestare il 51 bis, a cui ha appena dato il via libera, ma ormai è troppo tardi. In quegli stessi istanti, sulla locomotiva dell’espresso 70, il fuochista Vittore Brunetti si accorge che il semaforo in entrata a San Paolo è chiuso, lo dice al macchinista, Maurizio Cavigioli, che riduce la velocità, ma non si ferma, convinto che il segnale riguarda il merci che li segue. Ancora poche decine di metri, poi, Brunetti vede uscire dalla notte il 51 bis e si mette a gridare «Alt! Alt! Scambio falso, andiamo addosso al treno!» e si butta dalla locomotiva salvandosi la vita.

Quando i primi barlumi di luce annunciano l’alba di quel 23 aprile, la notizia della sciagura ha già fatto il giro della città e dei villaggi vicini e una folla di bellinzonesi assiste sgomenta all’azione febbrile dei soccorritori, che riempie l’aria di un’energia palpabile. L’incendio è domato, i feriti trasportati all’ospedale, così come i miseri resti delle vittime, ma si cercano elementi che aiutino nel non facile compito d’identificazione e si lotta contro il tempo per liberare chi è ancora prigioniero nell’ammasso dei rottami.

Anselmo Burg, macchinista della seconda locomotrice del 51 bis, ferito gravemente e intrappolato nella cabina, viene liberato, ricorrendo alla fiamma ossidrica, solo attorno alle otto del mattino. Anche Pietro Snozzi, trentunenne di Carasso, che si trovava sul vagone-riscaldamento dell’espresso 70, rimane inchiodato per cinque ore con la gamba destra sfracellata tra i resti di due locomotive. Gliela amputeranno all’ospedale.

I morti tra il personale sono sei. Giacomo Briner, cinquantaquattro anni, macchinista, che poco tempo prima ha già perso la moglie. Lascia quattro figli. Il quarantenne Gustavo Schwarz, fuochista, lascia la moglie e i tre figli, come Pietro Boni, quarantanove anni, di Arbedo. Maurizio Cavigioli, di Bellinzona, quarantacinque anni, al comando della prima motrice del treno 70, Stefano Scesco, quarantadue anni, di Biasca. E Attilio De Gottardi, trentotto anni, che viene estratto dal carro-riscaldamento gravemente ustionato. Muore il giorno dopo all’ospedale, assistito dalla moglie Margherita.

Carlo Buffi, che si è buttato dalla locomotiva poco prima dell’impatto, riporta ferite tali che ne provocheranno la morte l’anno successivo.

Le nove vittime tra i passeggeri sono Karl Helfferich, politico ed economista, già vicecancelliere del Reich, ministro delle finanze nel 1915-16 e all’epoca capo del Partito Popolare Nazionale Tedesco (Deutschnationale Volkspartei), sua madre Augusta, il ventinovenne Ferdinando Planzi, commerciante originario di Malvaglia, ma domiciliato a Milano, Albert His, studente d’architettura non ancora ventenne, di Basilea; i coniugi Sigfried e Ilonka Wertheim di Berlino; l’austriaco Otto Brühl; Franz Fröhlich, chimico tedesco; Melita (o Mimma) Godet di Brema.

Fin da subito, mentre il Procuratore pubblico Martinoli apre l’inchiesta, congetture e speculazioni sulle cause del disastro si diffondono a macchia d’olio. Non mancano le ipotesi fantapolitiche, come quella del «Deutsche Tageblatt», che si azzarda a scrivere «è stato voluto apposta per uccidere Helfferich… con un piano prestabilito e dietro l’istigazione della framassoneria mondiale». Più pragmatiche le organizzazioni sindacali, che accusano le ferrovie di risparmiare sul personale, sottoponendolo a turni estenuanti (il macchinista Cavigioli stava lavorando da quindici ore). Tutti auspicano l’adozione di nuovi sistemi di sicurezza, l’elettrificazione e la centralizzazione di scambi e segnali, l’interdizione generalizzata delle carrozze illuminate a gas. Misure che verranno effettivamente adottate nei mesi e negli anni seguenti.

Il 23 novembre del 1925 si apre a Bellinzona il processo contro i presunti responsabili dell’incidente, ma il procedimento si chiude con una sentenza d’abbandono.

La tragedia di San Paolo ha lasciato un segno profondo nella memoria collettiva ed è stata una lezione dolorosa sull’importanza della sicurezza ferroviaria e sulla necessità di vigilare costantemente sull’incolumità dei passeggeri e del personale. Il suo ricordo oggi è tramandato dal monumento di Giuseppe Chiattone, inaugurato il giorno di Pasqua del 1927 sotto gli ippocastani del parco Benigno Antognini di Bellinzona, e dal contenuto di due faldoni depositati all’Archivio dei Stato. Preziosi documenti storici, custoditi dal sindacato del personale di locomotiva (SEV-LPT), che, una ventina d’anni fa, li ha donati alla Fondazione Pellegrini Canevascini. Sono gli interrogatori di protagonisti e testimoni, le perizie, gli atti del processo, ritagli di stampa, qualche foto d’epoca e… il coperchio della scatola originale, con la scritta vergata a mano dall’allora presidente del sindacato, Armando Besomi: «Colui che apre questa scatola sappia di aprire uno scrigno del tempo».1

1) Si ringraziano per la collaborazione Manuele e Simone De Gottardi, la Fondazione Pellegrini Canevascini, Emanuele Besomi, Thomas Giedemann (segretario sindacale SEV-LPT).