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L’accudimento dei curanti della psiche
Essere psicologi e psicoterapeuti non compensa il bisogno di curare sé stessi
Maria Grazia Buletti
«Gli psicologi sono professionisti che si occupano del vissuto, delle emozioni, dei pensieri e del comportamento umano». È la definizione che l’Associazione ticinese psicologi dà dei suoi affiliati, il cui compito è prendersi cura «della salute psicologica dell’individuo e dei gruppi sociali svolgendo la propria funzione in diversi ambiti come quello privato (negli studi di consulenza psicologica e psicoterapia), istituzionale (ospedali, scuole, strutture psicosociali) e del lavoro (aziende, istituzioni pubbliche e private)».
È ampio il ventaglio di interventi psicologici «che aiutano a gestire meglio molte situazioni di difficoltà, disagio e malattia sia acuta sia cronica, con l’intento di favorire un migliore adattamento e contribuendo in tal modo alla salute psicofisica». Per la sua natura relazionale (fra terapeuta e paziente), il «mestiere del curare la mente» è particolarmente complesso e non esente da un certo coinvolgimento emotivo, ricaduta del tutto umana.
«L’umanità del terapeuta curante in senso lato è condizione imprescindibile, ma la professionalità deve essere supportata dal saper limitare quelle parti che potrebbero interferire con l’equilibrata predisposizione verso l’altro di cui una presa a carico terapeutica necessita». Sono le parole del già presidente di ATP Nicholas Sacchi che ricorda come la Legge federale di abilitazione alla professione di psicoterapeuta imponga un numero cospicuo di ore di lavoro su se stessi e una supervisione (o intervisione alla pari per gli operatori «senior»). Ciò che permette al terapeuta di avvicinarsi all’altro con intelligenza: «Aspetto professionale della conoscenza di sé, del prendersi cura del proprio strumento-persona attraverso terapia personale, supervisione e intervisione, coadiuvate dall’onestà intellettuale e deontologica del sapere come si sta nel qui e ora; essere coscienti di come ci sentiamo, del periodo che attraversiamo in quel momento; riuscire a interpretare segni e sintomi che parlano di noi». In buona sostanza: «La persona che cura deve ricordarsi del benessere dell’altro, senza dimenticare chi è il polo ricevente e chi sta dall’altra parte».
Pure il terapeuta, dunque, può andare incontro a difficoltà e sofferenza a causa del lavoro, «in affanno» proprio come gli altri operatori sanitari evidenziati nella nuova guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità e dell’Organizzazione Internazionale del lavoro (vedi: L'importanza di prendersi cura dei curanti, «Azione» n. 13 del 25 marzo). Molteplici gli strumenti per mantenere la rotta, nel rispetto della condizione di empatia essenziale nella relazione con il proprio paziente: «Lo psichiatra Cesare Maffei così l’ha definita: “Empatia è riconoscere il sentimento dell’altro, starci pur rimanendo sé stessi”. Che significa: essere “umani ed empatici” per entrare in relazione, riuscendo a individuare il giusto limite, e a capire il nostro. Ad esempio, può succedere che io sia in una situazione di divorzio e debba entrare in relazione con un paziente che si trova proprio in questo frangente. Devo innanzitutto capire se davvero io sia in grado di portare avanti la seduta, rimanendo me stesso senza che la mia situazione personale entri in conflitto con quella del mio paziente. Ciò significa essere genuino ma onesto nel non inquinare il campo terapeutico entrando in relazione con quello dell’altro».
Proteggersi, e proteggere il percorso di cura, prevede la possibilità di affidarsi a una sorta di «bussola» (è il sostegno tra professionisti di cui parlavamo) ed esercitare la «pazienza», parola la cui etimologia spiega tutto perché origina dal greco pathein e pathos (dolore corporale e spirituale) e indica la facoltà umana di rimandare la propria reazione alle avversità, mantenendo un atteggiamento neutro nei confronti dello stimolo».
Si comprende che il terapeuta non è esente dalla condivisione del dolore, deve però trovare un equilibrio: «Questa relazione comporta lo stare nella sofferenza altrui, ma pure nella nostra, anche se il nostro dolore deve essere mediato in funzione del benessere della persona che ci chiede aiuto. Poi, spetta a noi fare capo agli strumenti per chiedere aiuto a nostra volta, come abbiamo visto parlando di super e intervisione».
La cosiddetta «schermatura» del terapeuta è una «membrana porosa» che gli permette di accogliere in modo efficace le storie dei propri pazienti: «È qualcosa di osmotico e permeabile che favorisce il passaggio relazionale, e come tutti i processi osmotici è bidirezionale perché “l’altro” possa sentire la mia umanità». Di fatto, in questo scambio osmotico il terapeuta permette al suo paziente di percepire la sua presenza e lo aiuta a decomprimere. In un rapporto terapeutico non va sottostimato l’impatto delle «chiusure» di diverso tipo con cui il curante si trova a fare i conti: «Non se ne parla per una sorta di pudore, ma succedono diversi tipi di chiusure: quelle concordate (modo e data) nelle quali si lavora sul lasciarsi e su cosa significhi chiudere questo tipo di relazione; e quelle un po’ nascoste, come quando il paziente dirada gli appuntamenti fino a non più presentarsi, senza consapevolezza, ma ci si rende conto che così è forse venuta meno la spinta iniziale. E il rischio è che rimanga qualcosa di irrisolto».
Il principe dei «tagli» è però il drop out: «La persona sparisce senza spiegazioni. E non richiama più. Così si rimane in una situazione deontologicamente un po’ difficile: ci si chiede se qualcosa sia venuto meno nella relazione e talvolta noi terapeuti abbiamo timore di dire che ci sentiamo abbandonati, anche se si tratta di una variabile umana che può capitare». Anche in questo caso la supervisione aiuta a comprendere il significato della situazione: «Ci interroghiamo sulle nostre eventuali responsabilità, se abbiamo inconsapevolmente messo una distanza, e la supervisione permette al racconto del terapeuta di essere letto in un’ottica speculativa». L’esperienza insegna che alcuni di questi pazienti ritornano: «Magari con un messaggio, un genitore che chiama per aggiornarci e via dicendo». Ciò fa sì che si riescano a definire i contorni di un distacco come questo. Altro caso è perdere il paziente: «È un episodio estremamente pervasivo perché genera sensi di colpa verso la persona e verso i suoi cari (“Perché non me ne sono accorto? Potevo fare di più?”). Chi, fra i curanti, entra in una situazione come questa senza la dovuta rete di sostegno, rischia di precipitare: «Il terapeuta custodisce una storia, appunti, cartelle, e a volte sono sue personali considerazioni. Allora, talvolta giova rileggere tutto o alcune parti: si rivive la situazione e ciò aiuta a elaborare un distacco così netto e aggressivo come la morte di un proprio paziente. Possiamo dire che il curante non “piange” da solo, ma “in compagnia” del supervisore».
Oggi i tabù attorno a questa professione si sono un po’ attenuati, ma il lavoro è sensibilmente aumentato e questo ha avuto un impatto anche sullo stato di benessere del terapeuta: «Come tutte le situazioni in evoluzione, il cambio di paradigma degli ultimi anni ha avvicinato la popolazione a noi psicologi e psicoterapeuti, ma ci impone di prestare ancora più attenzione a come stiamo: dobbiamo essere attenti ad accogliere un numero di pazienti che siamo in grado di seguire al meglio delle nostre risorse, e dunque ci vuole più cautela, ricordandoci che l’essere curanti non deve affatto sostituire l’idea di curare noi stessi».