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Quando sul lavoro non ce la fai più
Il burnout, ovvero lo stress cronico dovuto alla professione, è sempre più diffuso. Una coach e scrittrice inglese affronta il problema, proponendo soluzioni individuali
Stefania Prandi
Il burnout – lo stato di stress cronico correlato al lavoro e caratterizzato dalla sensazione di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali – è sempre più diffuso. Secondo le ultime indagini, in Svizzera, il numero di lavoratori spossati non è mai stato così alto. Al crollo fisico e nervoso e ai modi per superarlo è stato dedicato un libro, appena pubblicato in inglese, intitolato Exhausted: An A–Z for the Weary (Profile Books). L’autrice, Anna Katharina Schaffner, conosce bene il disturbo perché l’ha provato in prima persona. Prima di diventare scrittrice e coach specializzata in burnout (propone consulenze e percorsi individuali), era professoressa di Storia culturale all’Università del Kent, in Inghilterra. L’accademia, col suo ambiente competitivo e precario, l’aveva però prostrata.
Come la stessa Schaffner racconta sul suo sito internet, era sempre esausta e si ammalava spesso: la sua mente «era diventata cenere», la sua vita le «sembrava piatta e noiosa». Aveva tempo solo per lavorare e trascorreva la maggior parte delle giornate alla scrivania. Non si concedeva pause per «divertirsi, ridere o per qualsiasi attività gioiosa e rigenerante». E anche se era praticamente incollata al portatile tutto il giorno, per settimane intere, non era davvero produttiva, ma languiva. La frustrazione l’ha portata, a un certo punto, a un’improvvisa consapevolezza: non poteva più continuare così. Ha deciso quindi di licenziarsi (scelta che non ha mai rimpianto, nemmeno per un secondo, ama puntualizzare) e specializzarsi nella «cura» del burnout.
«In senso stretto, il burnout è un malessere professionale causato dallo stress cronico sul lavoro – spiega Schaffner ad «Azione» –. È una forma estrema di esaurimento che non passa soltanto riposandosi. I ricercatori hanno scoperto che è provocata dai carichi eccessivi, dalla cattiva comunicazione e gestione dei compiti, dalla solitudine e dalle pressioni irragionevoli in termini di tempo. All’elenco si aggiunge la mancanza di significato e di scopo e il fatto di vivere in una società “sempre attiva”, senza rispetto dei confini. Forse – aggiunge Schaffner – la causa più comune di sofferenza che vedo nei miei clienti di coaching è il sentirsi sottovalutati. Non essere rispettati e valorizzati sul lavoro può quasi raddoppiare il rischio di sfinimento. Ed è un vero peccato, perché dimostrare apprezzamento non è difficile, eppure pochissimi manager e capi sanno come farlo o si rendono conto di quanto sia importante. Farebbe un’enorme differenza».
Ci sono anche dei fattori scatenanti «interiori», suggerisce Schaffner, come il perfezionismo e la tendenza a un’autocritica spietata. Tuttavia diverse ricerche indicano che le principali cause del burnout sono radicate negli ambienti di lavoro. Nella maggior parte dei casi, perciò, non è colpa dei meccanismi individuali difettosi di adattamento (coping in inglese), come l’industria della felicità vuole farci credere. La psicologa sociale e ricercatrice Christina Maslach invita a pensare a un canarino nella miniera di carbone: svolazza giallo, allegro e pieno di vitalità. Ne esce malato ed esausto, coperto di fuliggine, con lo spirito spezzato. L’uccellino non mancava di resilienza o forza di volontà, e non ha nemmeno scelto di stare male: è stata la miniera di carbone a distruggerlo.
Il burnout presenta tre sintomi principali: l’esaurimento cronico che non è curabile con il riposo; la ridotta capacità di lavorare e gestire le attività; la «depersonalizzazione». Quest’ultima può manifestarsi con un atteggiamento cinico e amareggiato nei confronti di colleghi e capi. Si traduce anche in stati d’animo di disperazione, disprezzo di sé, irritabilità e irascibilità. A fare da cornice al fenomeno c’è la cultura nella quale siamo inseriti. Secondo Schaffner, «il lavoro non è solo una fonte di status e reddito: ci aspettiamo che ci offra opportunità di autorealizzazione, connessione, comunità e identità. Speriamo che ci fornisca uno scopo, un valore e una sorta di piena convalida esistenziale. Ed è proprio per questa sovradeterminazione che la sofferenza che proviamo nella nostra professione può penetrare in tutti gli aspetti della vita. Se la maggior parte del nostro tempo e delle nostre energie vengono investite nel lavoro, altre parti di noi appassiscono: le relazioni, la creatività, ciò che potrebbe nutrirci spiritualmente ed emotivamente, i nostri corpi. È come vivere in una sola stanza della casa, mentre tutte le altre diventano lentamente inabitabili perché sono fredde e vuote».
Sul sito di Schaffner è possibile prenotare una chiamata esplorativa gratuita di mezz’ora. Ma come funzionano le sedute? «Prima di tutto aiuto i miei clienti a comprendere i loro principali fattori di stress e poi a riconoscere se sono interni oppure al di fuori del loro controllo – risponde la coach –. Nelle sessioni si approfondisce la consapevolezza di se stessi: quali sono i modelli che non servono più? Cosa dà energia e cosa, invece, la disperde? Quali sono i valori fondamentali e come si collocano nella vita? Cosa fa sentire veramente vivi? Come si può provare a sentirsi bene più spesso? È importante ricordare che quando siamo sfiniti, tendiamo a ridurre le nostre attività. Dato che abbiamo così poca energia, siamo portati a fare sempre meno. Ma il problema è che, nella maggior parte dei casi, ci troviamo in uno stato di prostrazione perché abbiamo eliminato le attività e le relazioni che hanno la capacità di nutrirci e di darci nuova forza. Creiamo così un circolo vizioso. Infine, nelle sedute, considero anche il dialogo interiore – che può diventare rimuginio, se incontrollato – cercando le risposte a questi interrogativi: come parli a te stesso? Il tuo dialogo interiore è utile o dannoso? Potrebbe prosciugare la tua energia da dentro e trattenerti? Quali convinzioni fondamentali hai su te stesso che non ti servono?».