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Gli effetti dei social sulla salute pubblica

Tempi moderni ◆ Il sindaco di New York ha dichiarato pubblicamente guerra ai social che, a suo avviso, mettono a rischio la salute e la sicurezza dei giovani. Ne parliamo con lo psicoterapeuta Nicholas Sacchi
/ 01/04/2024
Valentina Grignoli

Nei mesi scorsi Eric Adams, sindaco di New York, ha dichiarato pubblicamente guerra ai social media – con tre cause a TikTok, Instagram, Facebook, Google e Snapchat – definendoli tossine ambientali per i giovani. Il Primo Cittadino non ha usato mezzi termini: «Non possiamo stare a guardare e consentire a Big Tech di monetizzare sulla privacy dei nostri figli e mettere a rischio la loro salute mentale». New York è la prima città degli Stati Uniti a prendere un’iniziativa simile nei confronti dei social media.

Di qualche giorno fa è poi la notizia chel’Autorità Antitrust italiana ha multato TikTok con 10 milioni di euro per controlli inadeguati sulla sicurezza dei minori. Il social è accusato di aver permesso che contenuti minacciosi per la sicurezza di minori e persone vulnerabili, come per esempio la sfida autolesionista conosciuta come «cicatrice francese», circolassero liberi e venissero sistematicamente riproposti agli utenti grazie all’algoritmo.

Queste notizie ci pongono di fronte a un bivio. Se è infatti ormai evidente che i social media possano avere effetti negativi per la salute pubblica, è anche vero che la soluzione non sta nel metterli semplicemente al bando: il rischio è quello di ottenere un effetto contrario, soprattutto nei più giovani. Ma è proprio a loro che vengono rivolte le maggiori preoccupazioni rispetto a un mezzo che è sempre più difficile controllare.

È da queste osservazioni che prende il via l’intervista allo psicoterapeuta ticinese Nicholas Sacchi, col quale abbiamo parlato del nostro rapporto coi social media e il mondo digitale.

Possiamo dare torto al sindaco Eric Adams, quando punta il dito contro i social media?
Va prestata maggiore attenzione ai social, ma soprattutto al loro utilizzo in completa autonomia da parte dei giovani. Sono mezzi funzionali, arricchenti, ma bisogna sapere che nascondono spesso situazioni difficili da gestire, in cui va abbassata la soglia di tolleranza rispetto a crude verità o spacciate per tali, che ci piombano addosso in maniera decontestualizzata, senza filtri. Quindi sì, è giusto suonare l’allarme, anche se va fatto con il dovuto distinguo dell’età e del mezzo.

La città di New York sembra reagire con il proibizionismo… È davvero la via migliore?
Sappiamo che proibire senza educare non porta a risolvere la situazione. La proibizione genera curiosità, il social diventerebbe una sfida ancora più intrigante contro l’autorità, e dato che il problema di fondo è l’assenza di controllo, in questo caso sarebbe controproducente. Ci vorrebbe invece sempre qualcuno che si sieda accanto ai ragazzi per imparare insieme come accedere a questi mezzi. Accompagnarli. Sui cellulari, attraverso i social, arriva del materiale assolutamente non curato, solo teoricamente scelto poiché in realtà tutto è in mano agli algoritmi. C’è un bellissimo volume, di Johann Hari, L’attenzione rubata (Nave di Teseo) che illustra come la predisposizione degli algoritmi sia catturare la nostra curiosità tendendola verso il polo negativo delle cose, mettendoci così in una situazione di attenzione morbosa: in questo modo non ci stacchiamo dallo schermo. Con il bambino questa tendenza è accentuata: vuole il bello, ne è attratto, ma se viene indotto a vedere temi che suscitano per esempio paura, avrà la tentazione di combatterla continuando a stare nel social per capirne di più e stigmatizzarla, sottoponendosi a ulteriori contenuti di terrore. Noi adulti sappiamo come funzionano gli algoritmi, siamo consapevoli che possono creare dipendenza, siamo responsabili. Ma non lo possiamo chiedere a un bambino, o a un adolescente!

Perché i social media possono nuocere ai ragazzi?
I ragazzi sanno fare un sacco di cose con lo smartphone, ma poi nell’incontro con l’altro si perdono, si sciolgono. Per esempio, mi capita sempre più spesso che giovani pazienti annotino gli appuntamenti per le mie sedute nelle Note del telefono. Esiste l’app calendario, ma forse per loro è un legame troppo stretto con la realtà. Fissano invece nel virtuale un appuntamento con il reale, lanciano nell’etere l’appuntamento, mettendo di fatto il reale nel virtuale, lasciandolo lì. È emblematico. Il virtuale poi continua a nutrirci. Anche se facciamo l’atto cosciente di aprire un social, ne siamo subito inondati. Inizia il meccanismo di assuefazione all’informazione, voyerismo sponsorizzato dallo scroll continuo. Dopo un’ora abbiamo la sensazione di non aver fatto niente, di essere stati appunto inondati. È una «nolontà»: ho fatto qualcosa che non volevo. Alla fine sono stanco, svuotato. Noi adulti abbiamo una diversa percezione del tempo che scorre e come usarlo, per questo discutiamo con i ragazzi sull’uso che ne fanno quando si fanno inondare da un social: hanno perso un’ora spostati da una corrente che non era di loro volontà.

Un mondo che però ha permesso ai ragazzi di creare una rete…
Certo, la rete reale, la piazza, si può trasferire per esempio su Fifa. Se non posso giocare a pallone la sera, sposto lì il gioco, con gli amici veri. Diverso è quando ci sono persone che non conosco, altri «amici», un gruppo di lavoro, con un task preciso. Nasce l’illusione di essere in un gruppo, come quello delle vacanze estive. In questo «effetto Valtour» i ragazzi vivono in bolle che continuano, e lì si rifugiano. Con il Covid questo rifugio era una manna dal cielo. Per molti però una condanna, perché non sono più tornati nella realtà, imprigionati in quella bolla.

E questo continua ancora oggi?
Sì, perché se alcuni hanno saputo giocare l’alterità in forma ibrida, altri l’hanno patita con grosse ansie. Come affrontare ora l’altro reale, una persona che va oltre la propria immaginazione o le proprie aspettative, che richiede un contesto, una narrazione continua che sceglie e può anche non esserci? L’altro virtuale, invece, appare e scompare a seconda della connessione e della mia volontà. Questo nega la possibilità che ci sia una storia, una memoria, di quella persona. È qualcosa di frammentato che viene e parte a ondate. Emozionante, ma non gratificante. A questo proposito è ispiratore il testo Le non cose di Byung-chul Han (Einaudi).

Un altro problema di salute legato ai social network è per i ragazzi la perdita di autostima derivata dal continuo confronto con un mondo idealizzato, patinato, irreale.
Nel mondo virtuale noi non siamo presenti nella nostra interezza, continuità e identità. Produciamo una precisa identità, mettiamo alla mercé degli altri la nostra vita, proponiamo sui social la sua versione ideale. Tutti lo fanno, e questo diventa uno stimolo per idealizzarla ancora di più.

E che fine fa l’immagine che noi possiamo avere di noi stessi in questo mondo ideale?
La rete è andata a cogliere il bisogno dell’essere umano di identificarsi per dare continuità al proprio io. Internet ci dà questa possibilità e noi aderiamo. Con i social avviene in maniera ancora più rapida.

E per quanto riguarda il bombardamento delle immagini?
L’arrivo degli smartphone ha cambiato il rapporto con la realtà. Un telefono che fa foto continuamente scompone il mondo in immagini immediate. La vista, che è il senso più accattivante, il primo che ci scatena pulsionalità o ribrezzo, reagisce all’immagine immediatamente. Con Instagram il fenomeno è esploso, non si condivide per relazionarsi. La fotografia arriva forte e vigorosa, ma non vuol dire nulla, è pornografica nel senso che assolve a un bisogno primario senza l’implicazione di una relazione.

Come possiamo convivere con tutto questo?
Non possiamo e non dobbiamo togliere i social dalle nostre vite. Al contempo non possiamo lasciare in mano un oggetto ai nostri figli senza saperlo usare anche noi. Dobbiamo essere curiosi come loro. Se lasciamo solo a loro la scoperta, senza rintracciare il bandolo della matassa, li perdiamo. Bisogna aprire quindi un canale, con i figli, confrontarsi reciprocamente sulle proprie preferenze. E mettere dei filtri, un genitore ha il dovere di filtrare quello che passa nella rete.