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Noi e la Natura, strategie contro la vulnerabilità

In sempre più Paesi è necessario imparare ad adattarsi trasformando l’ambiente per resistere al clima che cambia
/ 01/04/2024
Loris Fedele

Tutti dipendiamo dalla Natura e dai suoi prodotti. Per chi se li può comperare la vita risulta più facile, ma ci sono anche quelli, e al mondo sono tanti, che hanno bisogno di attingere direttamente a queste risorse per la loro sopravvivenza. Diverse indagini e studi ci dicono che almeno un terzo delle popolazioni nelle zone tropicali (cioè circa 1,2 miliardi di persone) sono fortemente dipendenti per soddisfare almeno 3 dei 4 bisogni primari essenziali, catalogati come: la casa, l’acqua, l’energia, l’occupazione. Circa 650 milioni abitano nell’Asia-Pacifico, 500 milioni in Africa, circa 50 milioni nel centro America. Nella loro vita, già difficile, sono pure entrati i cambiamenti climatici che, influendo sulle dinamiche naturali, mutano le situazioni e li costringono a cambiare abitudini. Il risultato sfocia in un’ulteriore pressione sull’ambiente naturale che, in un circolo vizioso, penalizza l’intero ecosistema, cioè sia l’uomo sia la natura.

L’obiettivo politico e morale per lo sviluppo sostenibile impone di prestare la massima attenzione su queste popolazioni sfavorite e sui loro bisogni fondamentali. Fare star meglio loro farà star meglio tutta la popolazione mondiale, migliorerà i commerci, ridurrà i conflitti e le emigrazioni forzate. Nell’ultima Conferenza mondiale delle Parti sui cambiamenti climatici, la COP28 tenutasi lo scorso dicembre a Dubai, uno, se non l’unico, dei pochi risultati apprezzabili è stato l’accordo che rende operativo il «Fondo per le perdite e i danni» destinato ad assistere le comunità degli Stati in via di sviluppo colpiti dai disastrosi eventi meteorologici e da altri danni alimentati dal riscaldamento globale. C’è chi ha subito bollato l’accordo come insufficiente, giudicato comunque un passo positivo nella giusta direzione. Il fondo avrà almeno 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 a fronte di un bisogno effettivo già vicino ai 400 miliardi denunciato dai Paesi in via di sviluppo. Come vediamo sono cifre importanti, legate ai danni, alle ricostruzioni, alle misure di risanamento, agli aiuti per gli agricoltori e gli sfollati.

Quando si parla di «Mitigazione» si parla di misure per rendere meno gravi gli effetti del cambiamento climatico, prevenendo o diminuendo le emissioni di gas a effetto serra (CO2 in primis) nell’atmosfera: una misura ritenuta essenziale da tutti gli scienziati. Però un esame di realtà, visto che il riscaldamento globale sta avvenendo adesso, suggerisce di rispondere anche con l’«Adattamento», che prevede aggiustamenti a livello sociale, strutturale e nei processi ecologici. L’adattamento può essere: 1) immediato e riparatore, 2) integrato e progressivo, per far fronte all’impatto senza cambiare troppo le abitudini delle popolazioni, 3) trasformazionale (o trasformativo) con l’adozione di strategie che rinforzano la capacità della gente e della natura di adattarsi a lungo termine e capire le cause alla base della vulnerabilità.

Quest’ultima strategia trasformativa implica cambiamenti fondamentali. Gli approcci possono mischiare le metodologie. Per esempio: nel centro delle Filippine, nel 2013, un tifone distrusse molte case e uccise 6000 persone. Per far fronte all’innalzamento del mare e alle prossime tempeste si procedette al ripristino della barriera naturale creata dalle mangrovie, usate come prima linea di difesa, affiancate da nuovi argini e da frangiflutti tipici dell’ingegneria convenzionale. Le mangrovie sono alberi fondamentali per proteggere le coste, riescono a vivere semisommerse nell’acqua salata, affondano le loro grandi radici nella sabbia e nei suoli, sono un ostacolo fisico naturale allo sgretolamento del terreno. L’adattamento applicato nelle Filippine nel gergo operativo è definito «green-gray», cioè verde-grigio. Le azioni di tipo infrastrutturale e tecnologico sono definite grigie. Sono invece verdi quelle azioni basate su un approccio sistemico, quello che cambia le cose: per esempio ridurre i pesticidi, migliorare la gestione delle acque, difendere la biodiversità, sono tutte azioni di adattamento trasformativo. Dato che l’impatto dei cambiamenti climatici è differente a seconda del luogo che lo subisce, vanno scelte diverse strategie di adattamento, specifiche di ogni contesto, settore o regione, o capacità di risposta degli abitanti. Tornando alle mangrovie, sono la miglior soluzione per fronteggiare le piene stagionali, come sul Mekong, in Cambogia e Vietnam, il grande fiume soggetto a forti variazioni della portata d’acqua. Le popolazioni rivierasche talvolta vivono su palafitte in prossimità di fiumi o specchi d’acqua: una strategia per far fronte ai cambiamenti climatici potrebbe arrivare a farle indietreggiare e spostarsi rispetto alla riva, ricostruendo le case in aree più sicure, ripristinando le pianure alluvionali che si erano degradate e mettendosi a coltivare piante locali resistenti al cambiamento.

L’adattamento deve spingere la gente a reagire alla vulnerabilità climatica in modo proattivo. Ma ci vogliono abilità, conoscenze, soldi e tempo, oltre alla fondamentale volontà politica degli Stati coinvolti, chiamati a tenere in considerazione i bisogni e le aspirazioni delle popolazioni locali nelle loro strategie di conservazione. Per esempio, in Sudafrica si trovano importanti popolazioni che con i loro armenti hanno operato una eccessiva pressione sui pascoli, impoverendoli e addirittura desertificandoli. Programmi di aiuto stanno insegnando loro a gestire meglio le zone di pascolo, con rotazioni e piantagioni di nuove erbe. In Kenia invece ci sono indigeni Masai che praticano una tradizionale pastorizia nomade, soprattutto coi bovini. Con aiuti finanziari esterni stanno mettendo in comune varie estensioni di terreno, che una volta appartenevano allo Stato, e le gestiscono in comunità spostandosi con le mandrie in modo da non degradare i pascoli, che possono rigenerarsi e continuare a fornire l’erba di cui hanno bisogno. Quindi un adattamento trasformativo può anche basarsi su misure sociali.

Nella parte orientale del Madagascar i cambiamenti climatici hanno portato a una recrudescenza di cicloni, inondazioni, e precipitazioni mutevoli, tutti eventi estremi che hanno ridotto i campi di riso e manioca, dimezzando la produzione di cibo. Un adattamento basato sulla natura sta già introducendo pratiche agricole intelligenti, con colture resistenti alla siccità, irrigazione programmata e drenaggio, riso fuori stagione, pacciamatura, terrazzamento e pratiche agroforestali. L’adattamento trasformativo intrapreso invita le popolazioni a diversificare i mezzi di sussistenza per renderle più resilienti cambiando i piani di gestione locale e regionale a seconda delle peculiarità climatiche. Inoltre si spinge affinché non taglino la foresta solo per creare nuove fattorie, invitandoli a passare invece a pratiche agricole più performanti e alla fine più redditizie sul mercato. In Madagascar beneficiano del programma quasi 150mila contadini in 73 municipalità.